NOTIZIARIO "LA PAROLA" A NOI

Cari Colleghi,
come già vi avevamo preannunciato, sospendiamo temporaneamente l’invio del periodico “La parola a Noi”, in attesa della revisione dei costi di spedizione.
Riteniamo, comunque, doveroso mantenere con voi un rapporto epistolare per aggiornarvi sulle novità che riguardano la vita del Collegio, la sanità ionica, le cui ripercussioni si riverberano sul nostro lavoro.
Ecco che, dopo tanto pensare, abbiamo optato per un foglio notizie all’insegna del rispetto e della necessaria interazione Collegio-iscritti. Troverete informazioni flash che potrete approfondire sul sito, cliccando www ipasvitaranto.it, entrando, poi, nelle news.
Quello di cui voglio rendervi partecipi è la notizia della cerimonia solenne di consegna da parte del sindaco di Taranto, dott. Ippazio Stefàno, di una targa al Collegio in rappresentanza di tutti gli infermieri, nell’occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere (12 Maggio). Altrettanto importante per noi è l’avvio del Servizio Infermieristico nella Asl Ta, unica in Puglia, Servizio che dovrà rappresentare le istanze e la crescita degli Infermieri, in ossequio alle motivazioni di base dello stesso: miglioramento della qualità delle prestazioni da erogare. Per questo ai sei dirigenti va il nostro augurio: “ad maiora”.
Naturalmente stiamo mettendo a punto il calendario dei corsi di aggiornamento, oltre all’attivazione del “Master infermieristico per le funzioni di Coordinamento” anche per l’anno 2010-2011, per il quale potrete inviarci una pre-iscrizione.
In fase di attuazione il trasferimento del Collegio dalla sede di via Mazzini alla nuova in via Salinella, 16, che sarà completato a breve, di cui sarà, comunque, data comunicazione tempestiva.
Il Collegio continuerà a lavorare per i suoi iscritti, a completare il calendario scientifico, in modo da essere pronto a riprendere l’attività didattico-formativa già all’indomani del trasloco.

Benedetta Mattiacci
Presidente del Collegio IPASVI di Taranto


Bellezza e Salute

Il Centro di Riabilitazione e Fisioterapia della “Fondazione Beato Nunzio Sulprizio” comunica che agli Infermieri, iscritti al Collegio IPASVI di Taranto, viene praticato uno sconto dal 10 al 20% sulle prestazioni erogate tra cui: Terapia ad onde d’urto; Hydrofor; Tecarterapia; Hylterapia; Elettroterapia; Massoterapia; Ginnastica Posturale; Corsi di Back School; Pilates; Linfodrenaggio; ecc.
Per informazioni:  centralino 099/7792891- chiedere della Segreteria.

Informazione scientifica

Per l’anno 2010- 2011 sarà attivato il Master universitario di 1° livello in “Management Infermieristico per le Funzioni di Coordinamento”, durata: 1500 ore, distribuite in 6 moduli crediti universitari: 60, riservato ad: Infermieri, Infermieri pediatrici, Ostetriche (quest’anno al Master potranno partecipare anche infermieri che non hanno ancora 2 anni di servizio).
Al termine di ciascun modulo verranno sostenuti gli esami dei corsi integrativi previsti e la valutazione del tirocinio. Con l’attestato finale verrà rilasciato dall’Università degli studi “Tor Vergata” il “Diploma di Master di 1° livello in Management infermieristico per le funzioni di coordinamento”.

Valutazione del dolore - Le cure palliative

Valutazione del dolore - Le cure palliative
Di Giovanni Argese - Vice presidente Collegio IPASVI -TA

Il dolore, nemico inesorabile da eliminare perché ci vuole distruggere oppure amico franco, fino alla brutalità, che ci usa violenza per salvarci?

Il dolore è sempre stato uno dei fondamentali problemi dell’uomo, fin dalla sua origine e motivo di innumerevoli sforzi per comprenderlo e controllarlo. Nella azione professionale sanitaria non sempre è possibile guarire, ma curare sì. Nel “momento più difficile” della vita dell’uomo, quando resta solo la possibilità di comprendere e controllare il “nemico inesorabile”, diventa eticamente giusto stendere su di esso un “mantello” protettivo, la cura palliativa.

Diversi autori danno una definizione chiarificatrice di essa:
  1. le cure palliative possono essere definite come "il trattamento del paziente affetto da patologie evolutive ed irreversibili, attraverso il controllo dei suoi sintomi e delle alterazioni psicofisiche, più della patologia che ne è la causa". Lo scopo principale delle cure palliative è quello di migliorare anzitutto la qualità di vita piuttosto che la sopravvivenza, assicurando ai pazienti e alle loro famiglie un’assistenza continua e globale (Ventafridda, 1990);
  2. la peculiarità della medicina palliativa è il nuovo approccio culturale al problema della morte, considerata non più come l’antagonista da combattere ma accettata a priori come evento inevitabile. Da questa premessa teorica nasce una pratica clinica che pone al centro dell’attenzione non più la malattia, ma il malato nella sua globalità (Corli, 1988);
  3. la consapevolezza della morte induce un’attenzione più acuta alla qualità della vita ed alla sofferenza di chi sta per morire. La medicina delle cure palliative è, e rimane, un servizio alla salute. Non, dunque, una medicina per morente e per aiutare a morire, ma una medicina per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte" (Spinsanti, 1988).
L’indiscutibile progresso ottenuto dalla medicina, sia in campo diagnostico che terapeutico ha condotto ad una serie di conquiste un tempo considerate irrealizzabili, ma questo estremo tecnicismo mal si adatta alla cura del paziente terminale, egli necessita di “altro”. Alla base di questa filosofia resta sempre il rispetto dell’essere umano sofferente, l’attenzione al dettaglio, a tutto quello che si può e si deve fare quando "non c’è più niente da fare". Ciò significa interessarsi alla vita del malato, anche se dovesse essere brevissima, privilegiandone gli aspetti qualitativi e arricchendo ogni istante di significati e di senso, nonché mettere in campo la capacità di ascoltare, di “dare presenza”, di restaurare i rapporti umani, entrando in relazione emotiva con pazienti e familiari. Infine, una corretta "filosofia" nell’approccio palliativo deve comprendere la capacità di saper riconoscere i propri limiti come curanti e terapisti, recuperando il senso profondo della medicina come scienza ed arte per la salute psicofisica dell’essere umano.

Non ci si può improvvisare esperti in questo settore. Queste nozioni richiedono un nuovo tipo di formazione che sia accademica (Master specifici) e post-universitaria (formazione continua, ricerca, etc.). La preparazione dei professionisti della salute è più che mai necessaria. Non si intende medicalizzare la morte, ma offrire un aspetto umano a situazioni disumane finora trascurate e viste con indifferenza. Parlare invece di “impatto della malattia e/o dei trattamenti” o di “controllo dei sintomi”, significa richiamarsi ad un modo diverso di intendere la realtà. La malattia non è soltanto il fenomeno morboso in quanto tale, ma, anche e soprattutto, l’esperienza che di questo fenomeno ha il soggetto ed in particolare i vissuti di sofferenza, dolore, stanchezza, paura, nonché gli aspetti psicologici e relazionali. Da queste considerazioni è nata l’esigenza di proporre un’assistenza peculiare per i malati di cancro in fase avanzata, che presentino dolori o altri sintomi gravi, fisici e psicologici. Le cure palliative sono rivolte soprattutto ai pazienti colpiti da cancro. Dai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si comprendono rapidamente le dimensioni del problema: vengono diagnosticati ogni anno 5.9 milioni di nuovi casi di cancro di cui 4.3 milioni giungono a morte. Il rischio di ammalarsi di tumore è in costante crescita nella maggior parte dei Paesi, sia per l’aumento della durata media della vita sia per l’incremento dei fattori di rischio (De Conno, Martini e Zecca 1996). Per arrivare ad un intervento sanitario-assistenziale efficace, continuativo e riproducibile, le cure palliative in Italia dovevano cercare una strada nell’ambito della medicina ufficiale e scientifica, prendendo in considerazione esperienze già consolidate. Il costante punto di riferimento di tutte le iniziative nei confronti dei malati inguaribili è stato il movimento "Hospice" anglosassone. La prima iniziativa, strutturata per offrire una risposta pratica e scientifica ai problemi del malato morente, per istituire cioè un sistema di cure palliative, è stato un fatto piuttosto recente, che si collegava al movimento Hospice, nato negli anni Sessanta grazie a Cecily Saunders, fondatrice del St. Christopher’s Hospice di Londra. L’Hospice forniva supporto ed assistenza a chi si trovava nella fase terminale di una malattia inguaribile, per consentirgli di vivere l’esistenza residua in pienezza e nel modo più confortevole possibile. Da un punto di vista organizzativo l’Hospice è tuttora una struttura intraospedaliera o isolata nel territorio, che riproduce le caratteristiche della casa e dell’ospedale allo stesso tempo. E’ un luogo dove è possibile trattare i problemi dell’ammalato con ogni mezzo idoneo, medico, assistenziale, psicologico, spirituale, al fine di migliorarne la qualità della vita. Favorisce una personalizzazione delle cure ed una presenza continua di familiari e conoscenti vicini al malato.

In Italia, soprattutto al Sud, la carenza di strutture sanitarie specializzate tipo Hospice e di reparti di cure palliative fa sì che la casa del malato diventi il luogo di cura più idoneo. Certamente esistono dei casi in cui l’ospedalizzazione rappresenta la scelta migliore, sia perché adeguata ad affrontare le necessità terapeutiche del malato, sia perchè permette al paziente o ai suoi parenti di trovare il necessario sostegno negli operatori sanitari. Ma per molti familiari la scelta del domicilio può anche rappresentare la volontà di vivere in prima persona una situazione particolarmente profonda e carica di significati, anche affettivi, senza delegarla all’istituzione sanitaria. La tradizionale prassi del ricovero ospedaliero non fornisce, in genere, particolari supporti, salvo alleviare il peso assistenziale che grava sui parenti. L’assistenza domiciliare non rappresenta la soluzione più idonea se non ci si fa carico anche degli aspetti più squisitamente psicologici e relazionali del rapporto assistenziale. Tale soluzione non rappresenta una panacea, infatti, se realizzata in modo improprio; anzi produce essa stessa ulteriore sofferenza, in quanto elimina la presenza rassicurante e le risorse dell’ospedale, senza fornire un supporto ugualmente autorevole e valido. Gli studi di Parkes (1980, 1985) hanno messo in evidenza come l’assistenza domiciliare possa risultare un elemento di disagio, quando non condotta da personale competente nel controllo del dolore e degli altri sintomi. Nel proporre una strada alternativa all’ospedalizzazione i risultati devono essere almeno equivalenti, se non migliori. A questo proposito non esistono molti dati disponibili. Parkes (1980) segnala come il controllo del dolore a casa fosse ancora insoddisfacente per un campione di pazienti seguiti nel periodo 1977-79, sebbene i risultati fossero migliorati rispetto ad un lavoro precedente. La preferenza per una somministrazione orale del medicinale prescritto, la ricerca di terapie personalizzate e ad orario fisso, vanno nella direzione di permettere un trattamento anche domiciliare con la maggior parte dei pazienti. Uno studio di Ventafridda et al. (1989) ha cercato di confrontare le due forme di assistenza su parametri clinici, psicosociali ed economici. I risultati ottenuti su due campioni di 30 pazienti ciascuno (un gruppo seguito a casa, l’altro seguito in ospedale) non hanno mostrato alcuna differenza statisticamente significativa per quanto riguarda il controllo del dolore, il numero dei sintomi, il numero di ore di sonno. Secondo Spitzer (1981), invece, il gruppo domiciliare, dopo due settimane di assistenza, ha evidenziato una migliore qualità di vita. Assistere a domicilio presuppone, innanzitutto, il rispetto delle preferenze del malato nella decisione tra casa e ospedale, spesso assai più complesse e personali rispetto a valutazioni esterne (Hinton, 1979). In una indagine effettuata in Italia, 139 pazienti in fase terminale su 165 hanno dichiarato di preferire l’assistenza a casa. Poiché i bisogni del malato sono di natura diversa, è corretto affrontarli utilizzando specifiche competenze e specifici strumenti; poiché tali bisogni non sono di esclusiva competenza medica, l’équipe deve comprendere varie figure professionali e non. Nel servizio si possono distinguere due gruppi, che lavorano a contatto, ma che si propongono in due momenti diversi d’azione. Il primo è composto da quattro figure basilari nell’assistenza domiciliare e costituisce l’unità mobile di intervento, l’estensione extramurale del servizio di cure palliative:
  • familiare leader;
  • medico domiciliare;
  • infermiere domiciliare;
  • volontario.
Il secondo gruppo è rappresentato da figure professionali di raccordo tra il servizio e la casa. La loro collocazione è, in un certo senso, di supporto nei confronti dell’équipe domiciliare propriamente detta. Essi sono:
  • psicologo;
  • assistente sociale.
Il malato diviene, quindi, il centro dell’attenzione di diversi specialisti che devono lavorare insieme in modo coordinato. Ciò richiede un interscambio d’informazioni precise e tempestive, nonché una collaborazione attiva e fattiva. Occuparsi di un malato terminale significa, senza dubbio, confrontarsi continuamente con i suoi bisogni. Infatti questi presenta, in contemporanea, una serie di problemi rilevanti: di tipo psicologico (perdita dell’identità che, a seconda della diverse condizioni fisiche e socio-economiche, si concretizza in differenti significati: perdita del ruolo professionale ed economico, perdita del ruolo nell’ambito familiare, declino delle capacità intellettuali); di tipo emotivo - percettivo, legati alla sofferenza e alle conseguenze emotive prodotte sia dalla malattia che dagli effetti collaterali delle terapie (la paura che il dolore possa divenire incontrollabile, la paura di morire, la paura di perdere l’autocontrollo mentale e/o fisico, la preoccupazione di perdere il proprio ruolo in famiglia e sentirsi di peso). Come si può notare, gli studi disponibili risalgono a quasi 20/30 anni or sono, purtroppo c’è da dire che le cose non sono cambiate di molto, visto che tuttora l’assistenza domiciliare del Sistema Pubblico è pressoché inesistente e lasciata all’improvvisazione, se non in sparuti casi dove Associazioni di volontariato, come l’ANT, cercano di porvi rimedio (l’Ospedale Domiciliare). Il dolore compare fino al 50% dei pazienti in trattamento antineoplastico, salendo al 70% nei pazienti con cancro avanzato (Bonica, 1985); tuttavia può comparire anche in fase precoce, è riportato infatti che il 15% dei pazienti con cancro non metastatico ha dolore (Twycross, 1982). Il controllo efficace del dolore, in particolare nei pazienti in fase terminale, è uno dei punti cardine del programma oncologico dell’OMS, accanto alla prevenzione primaria, alla diagnosi precoce e alla terapia (WHO, 1986). Tra i diversi modelli utilizzati per affrontare la problematica, pare interessante proprio il PROTOCOLLO O.M.S.
Esso prende in considerazione:
  1. la valutazione del dolore;
  2. il trattamento terapeutico;
  3. la cura continua o di accompagnamento.
Valutazione del dolore
  • approccio centrato sulle sensazioni soggettive del paziente;
  • confronto di reperti clinici e di laboratorio con quelli soggettivi del paziente sulla localizzazione, estensione e tipo di dolore;
  • individuazione di fattori diversi dal dolore (paura, rabbia, ansia, problemi familiari) che lo accompagnano o lo aggravano;
  • rilevazione di possibili indicatori di dolore quali la mimica facciale, sudorazione, postura di difesa, irrigidimento, irrequietezza, alterazione dei parametri vitali, alterazione del ciclo del sonno.
Trattamento del dolore
  • il principio della strategia terapeutica deve essere quello di portare ad un controllo continuo del dolore;
  • adeguare il trattamento alla singola persona nel rispetto della sua dignità;
  • applicare la scala analgesica a tre gradini indicata dall’O.M.S.;
  • conoscere e trattare gli effetti collaterali dei farmaci somministrati ed in particolare degli analgesici narcotici.
Cura continua o di accompagnamento
  • assicurare al paziente il controllo del dolore e degli altri sintomi significa che potrà contare su un’assistenza accurata e continua volta al miglioramento della sua qualità di vita.
Gli elementi per la valutazione iniziale del dolore sono:
  • l’anamnesi dettagliata (entità e caratteristiche del dolore);
  • l’esame fisico;
  • la valutazione psicosociale.
Il dolore deve essere valutato e documentato ad intervalli regolari dall’inizio del trattamento; a fronte di una nuova segnalazione del dolore; dopo un intervallo di tempo a seguito di ciascun intervento farmacologico, seguendo lo schema PQRST:
  1. P (precipitators - stimoli causali),
  2. Q (quality - tipo di dolore),
  3. R (region and radiation – regione e irradiazione),
  4. S (severity - gravità),
  5. T (time - frequenza e durata).
Un approccio clinico di routine alla valutazione ed alla terapia del dolore può essere fatto usando l’acronimo inglese ABCDE:
  1. A (ask - chiedere regolarmente informazioni sul dolore, valutandolo sistematicamente),
  2. B (believe - credere a quanto riferiscono il paziente e i suoi familiari sul dolore e a ciò che lo allevia),
  3. C (choose - scegliere le opzioni per il controllo del dolore adatte per ogni paziente, per ogni famiglia e per ogni ambiente),
  4. D (deliver interventions – intervenire in modo tempestivo, logico e coordinato),
  5. E (empower - dare potere decisionale ai pazienti ed ai loro familiari, mettendoli in grado di controllare il decorso della propria malattia quanto più possibile), attraverso, per esempio, la somministrazione di un questionario, come quelli riportati di seguito.
L’équipe che interviene in tale processo deve assicurare una comunicazione e una collaborazione efficace (chiarezza tra professionisti in merito a ciò che essi possono fornire: chi prescrive, chi coordina la terapia, etc.; capacità decisionale che rifletta l’input e le preferenze del paziente e della sua famiglia; riunioni interdisciplinari per migliorare la comunicazione e lo scambio di informazioni e per assicurare un programma). Inoltre, deve essere capace di affrontare gli ostacoli che si frappongono ad un’efficace terapia del dolore. Essi possono includere:
  1. Problemi legati agli operatori sanitari - conoscenze inadeguate alla terapia del dolore, scarsa valutazione dello stesso, preoccupazione circa la regolamentazione delle sostanze controllate, paura che il paziente diventi tossicodipendente, preoccupazione circa gli effetti collaterali degli analgesici e che i pazienti diventino tolleranti agli stessi.
  2. Problemi legati ai pazienti - riluttanza a riferire il dolore per timore di distrarre i medici dal trattamento della malattia di base, per timore che il dolore indichi un peggioramento della malattia, per la preoccupazione di essere considerato un paziente “scocciante”; ritrosia ad assumere analgesici per timore dell’assuefazione, per gli effetti collaterali intrattabili, per paura di diventare tolleranti agli stessi.


Vi poi altre scale di misurazione del dolore:
  1. V.A.S. (Visual Analogic Scale - scala analogico/visiva),
  2. N.R.S. (Numeric Rating Scale – scala di valutazione numerica),
  3. V.R.S. (Verbal Rating Scale – scala di valutazione verbale),
  4. Scala dei Grigi di Luerscher.

Vi sono ancora degli strumenti che valutano il dolore in maniera multidimensionale:
  1. Mc GILL Pain Questionnaire (MPQ) di Melzack - 1975. Strumento complesso, basato sull’uso di 78 descrittori del dolore che comprendono tre dimensioni (sensoriale, affettiva e valutativa) e venti classi, contenente ciascuna da due a sei aggettivi, in ordine crescente di attività. La somministrazione dello stesso è impegnativa. Melzack ha proposto una forma breve (SF-MPQ) contenente quindici aggettivi. In italiano esistono due versioni: Maiani-Savio e quella di De Benedittis (attualmente è considerato uno strumento di ricerca).
  2. Brief Pain Inventory.
  3. Memorial Pain Assesment Card.
La fase successiva alla valutazione del dolore è quella della scelta della terapia più idonea da adottare. Essa va dalla somministrazione dei comuni antidolorifici (FANS), a quella degli oppiacei e derivati; dalla erogazione della radioterapia palliativa (controllo locale dei sintomi senza o con minimi effetti collaterali) all’applicazione delle tecniche invasive quali la chirurgia palliativa; etc. Questo sistema di cure adeguato ai bisogni dei malati terminali, di sicuro non ha come obiettivo la guarigione ma, evita quell’insieme di ulteriori tormenti conosciuti come “accanimento terapeutico”.

Ancora molto c’è da fare per giungere alla piena realizzazione di un’ assistenza personalizzata e attenta al servizio dell’uomo... La palla passa alle Istituzioni che dovrebbero tradurre in atti concreti (nuove ed appropriate programmazioni sanitarie, leggi adeguate, strutture idonee, etc.) il diritto del malato a vivere in modo dignitoso il suo stato terminale.

BIBLIOGRAFIA

Bonica J.J. Treatment of cancer pain: current status and future needs. In: Fields H.L., Dubner F., Cervero F., (eds.) Advances in pain research and therapy, vol. 9. Raven Press. New York. 589-616, 1985.
Clark W.C., Ferrer-Brechner T. et al. The dimension of pain: a multidimensional scaling comparison of cancer patients and healthy volunteers. Pain 37:23-32. 1989.
Corli O. Che cos’è la medicina palliativa, in Corli O. (ed.) Una medicina
per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia. Città Nuova. Roma. 1988.
De Conno, C. Martini, E. Zecca “Fisiopatologia e terapia del dolore” Editore Masson 1996.
Foley K.M. Pain syndromes in patients with cancer. In: Bonica J.J., Ventafridda V. (eds.), Advances in pain research and therapy, vol. 2 Raven Press. New York. 59-75, 1979.
Hillier R. Palliative Medicine. Br. Med. J. 297:874-875. 1988.
Hinton J. Comparison of places and polices for terminal care. Lancet i:29-32. 1979.
Kearney M. Palliative medicine - just another specialty? Palliative Medicine 6:39-46. 1992.
Mount B.M. Psychological and social aspects of cancer pain. In: Wall P.D., Melzack R. (eds.) Textbook of pain. Churchill Livingstone. New York. pp. 610-623. 1989.
Parkes C.M. Terminal care: evaluation of an advisory domiciliary service at St.Christopher’s Hospice. Postgraduate Med. J. 56:685-689. 1980.
Parkes C.M. Terminal care: Home, hospital or hospice? Lancet 19 gen.: 155-157. 1985.
Spinsanti S. Introduzione. Quando la medicina si fa materna. In Corli O. (ed.). Una medicina per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia. Città Nuova. Roma. 1988.
Spitzer W.O., Dobson A.J. et al. Measuring the quality of life of cancer patients. A concise QL-Index for use by pshysicians. J. Chron. Dis. 34:585-597. 1981.
Twycross R.G., Fairfields S. Pain in far-advanced cancer. Pain 14:303-310. 1982.
Ventafridda V., De Conno F. et al. Comparison of home and hospital care of advanced cancer patients. Tumori 75:619-625. 1989.
Ventafridda V. Providing continuity of care for cancer patients. J. Psychosocial Oncology. Vol. 8(2/3). 1990.
Ventafridda V., Caraceni A. et al. Symptom control in palliative home care. In: Domellof L. (ed.). Drug delivery in cancer treatment III. Springer-Verlag. Berlino. pp. 19-39. 1990.
World Health Organization: Cancer pain Relief. Geneva. World Health Organization. 1986.

Servizio 118: un servizio che funziona con qualche “ma”

Servizio 118: un servizio che funziona con qualche “ma”
di Battista Baccaro
Coordinatore Infermiere 118 - Asl TA

18 postazioni per 29 comuni
180.000 interventi dal marzo 2003
22.000 interventi nel 2010 (e sino a luglio)
36 soccorritori per turno
40 medici
83 infermieri ( 2 coordinatori – 19 in Centrale operativa e 62 nelle postazioni)

Sono i numeri imponenti del Sistema 118 della Provincia di Taranto, diretto, come Direttore di Centrale dal dicembre 2009, dal dr. Mario Balzanelli e coordinato, dal 2003, da Emiliano Messina e Battista Baccaro.

Numeri da media/ grande azienda in termini di gestione quotidiana del personale, che pure deve fare i conti con la necessaria frammentazione territoriale per assicurare una risposta immediata ed adeguata alle emergenze sanitarie. La risposta media (cioè il tempo trascorso dalla chiamata all’arrivo sul luogo) non supera i 10 minuti, tra i più bassi d’Italia. Eppure c’è qualcuno, come in questi giorni, che continua a polemizzare per i tempi d’arrivo. Ne parliamo con Battista Baccaro.

In realtà noi ci rendiamo perfettamente conto che i minuti, a volte i secondi, che trascorrono da un evento drammatico, un incidente stradale con feriti gravi, un malore grave in spiaggia o un trauma importante, all’arrivo del personale del 118 possano apparire troppi, ma è proprio la drammaticità del fatto ad alterare la percezione del tempo, così come le domande, rapide ed efficaci, rivolte dal collega di Centrale al chiamante, appaiono superflue, eppure servono ad organizzare la migliore risposta possibile. Il più delle volte la gente comprende, altre volte si sconfina in casi di maleducazione, quanto di vera e propria aggressione, ma questo oramai sembra un fenomeno più di ordine pubblico, aggiungerei di carattere “culturale”. In alcune zone della città, quando un congiunto, un amico sta male, l’alterazione del tono della voce, l’esagitazione rappresentano la modalità “teatrale” di mostrare interessamento, affetto. Se, poi, ci aggiungi l’aggressione all’infermiere, al medico, al soccorritore del 118, allora sei al massimo.
Ma questo fa parte della cronaca.

In altre realtà, del Centro-Nord, ma anche della Puglia, il punto debole dei Sistemi 118 è rappresentato dalla precarietà. Quando non della mancanza, di infermieri. Per Taranto?

Beh, in questo ci siamo distinti in meglio. Con oculatezza, dall’inizio, non si è derogato alla necessità di avere colleghi infermieri strutturati, cioè dipendenti della ASL. Sin dal 2002, gli atti deliberativi della ASL TA prevedevano dotazioni organiche per il personale infermieristico (all’epoca in numero di 60). Si pensi che in altre realtà di Sistemi 118 della Puglia si è partiti con infermieri a prestito dalle Unità operative, a volte sotto le spoglie di soccorritori forniti dalle Associazioni di volontariato convenzionate per il trasporto. Un immagine mortificante e dequalificante per la categoria che, con forza, non abbiamo mai accettato.
Oggi i risultati sono di un corpo infermieristico quasi del tutto strutturato a tempo indeterminato e fortemente aderente alle realtà di un moderno Sistema di Emergenza/urgenza e soprattutto svincolato, tranne un caso a Mottola, dai Pronto soccorso. Ve lo immaginate un collega impegnato in una prestazione di pronto soccorso che lascia tutto per correre in ambulanza?
Così era.

Quindi un corpo infermieristico fortemente adeguato e preparato ad ogni evenienza?

Quello della formazione è stato un altro traguardo importante che ci siamo voluti dare nella nostra ASL. Rispondendo anche ad obblighi legislativi, il personale del 118, infermieri, ma anche medici e soccorritori , al di là della formazione di base, deve seguire percorsi formativi adeguati con fasi di riaddestramento costante. Ecco allora che con la nascita del Centro Unico di Formazione all’Emergenza, ma già prima grazie a Franco Miccoli, Pietro Caramia, Annamaria Milizia, Peppe D’Angela e lo stesso Emiliano Messina, i numeri della formazione in emergenza sono anch’essi diventati importanti. Basti dire che nel solo 2009 oltre 250 operatori della ASL, tra Pronto soccorso, terapie intensive, dipartimento di Igiene e Prevenzione, lo stesso 118, hanno partecipato ai corsi di base di rianimazione cardio-polmonare per adulti BLSD e pediatrici PBLSD, di assistenza al trauma PTC. Ancora, in collaborazione con il Gruppo Formazione Triage di San Marino oltre 100 colleghi dei pronto soccorso territoriali sono stati abilitati a tale funzione. Tutti accreditati come eventi formativi e gratuiti. Non sembri poco. Anche in questo caso basta guardare ad altre realtà: la gente deve pagarsi i corsi in Emergenza.
Diciamo poi che in autunno partiranno i corsi per il personale dei Distretti socio-sanitari, del Dipartimento di salute mentale e per quello di Igiene e prevenzione. Altro capitolo è quello della formazione esterna.
Grosse aziende del territorio Eni ed Ilva, ma anche Enti pubblici come le scuole, acquisendo consapevolezza dell’importanza di organizzare al meglio la risposta all’emergenza sanitaria, hanno richiesto al nostro Centro, di formare i propri operatori a partire da quelli sanitari. Immaginate qualche hanno fa la Grande Industria che apre i propri cancelli alla ASL? Tutto questo è avvenuto diffondendo la cultura dell’emergenza, producendo anche introiti indiretti all’Azienda sanitaria tarantina. Infatti, si è costituito un fondo per l’acquisto di attrezzature che serviranno a dotare ulteriormente il CUF.

Allora tutto bene?

Non mancano le criticità, in alcuni casi gravi. Intanto il Sistema è riuscito ad avere finalmente una stabilità direzionale, come si diceva. Il dr. Mario Balzanelli, dal dicembre dello scorso anno, a seguito di concorso, è il direttore della Struttura complessa Centrale operativa, sino a quel momento la precarietà dei dirigenti, il dr. Luigi Carella ed il dr. Giuseppe Turco, non ha consentito di dare “immagine strutturata” al Sistema. Oggi si delinea un percorso di direzione, a partire dalla redazione di concreti protocolli operativi. In un Sistema, come quello dell’emergenza, nulla può essere lasciato al caso, tutto deve essere codificato e condiviso rispetto all’evidenza scientifica ed alle Linee guida internazionali. Il ruolo dell’infermiere nell’emergenza è fondamentale sembra averlo capito anche la Giunta regionale della Puglia che nel Piano di riordino territoriale prevede l’incremento, anche per la nostra Provincia, di postazioni con equipaggio “INDIA”, cioè soccorritori ed infermieri, ed una più ampia diffusione di automediche con medico a bordo pronto ad intervenire sulle reali emergenze da “Codice rosso”. Certo, se la popolazione capisse, ma soprattutto capissero gli amministratori locali, a partire dai sindaci, che 118 non vuol dire medico a bordo, ma risposta adeguata all’emergenza, probabilmente molte chiamate improprie non ci sarebbero. quindi, per tornare all’apertura, molte polemiche sui tempi si attenuerebbero. Anche questo è ciò che fa “culturalmente” la differenza. Infine, penso alla possibilità di incremento della dotazione organica dei colleghi infermieri. Oggi le postazioni sono a cinque unità, insufficienti per garantire contemporaneamente riposi e ferie, tanto che i coordinatori infermieristici continuano a turnare in automedica o ambulanza e poi…se riuscissimo ad avere nuove divise…

Il 118 che sarà





























Legenda: M – MIKE medicalizzata / I – INDIA infermierizzata/ V – VICTOR soccorritori

Il Mobbing in area sanitaria

Il Mobbing in area sanitaria
di Gerardo Mecca
Infermiere S.C. Cardiologia- Utic
Presidio Centrale - Ospedale “S.S. Annunziata”
Taranto

Caratteristiche generali: definizione del concetto di “mobbing”

Già da alcuni anni si sente parlare di mobbing, ma cosa effettivamente si intende con tale espressione? Il termine è mutuato dall’etologia. “Mobbing”, infatti, viene utilizzato da Konrad Lorenz (1969) per indicare un comportamento aggressivo osservato negli uccelli che, difendendo il proprio territorio, attaccano e allontanano un loro simile, scatenando un vero e proprio tafferuglio.
Dalla scienza del comportamento animale, tale termine viene esteso alla psichiatria infantile ed impiegato per descrivere un particolare comportamento aggressivo messo in atto da un gruppo di bambini nei confronti di un coetaneo.
Il termine viene ripreso negli anni ottanta da Leymann (Leymann e Gustavsson, 1984) che ne estende ulteriormente il significato, utilizzandolo per indicare un disturbo osservato in alcuni impiegati e operai svedesi sottoposti ad una serie di traumi psicologici sul luogo di lavoro, da allora il termine mobbing sta ad indicare il terrore psicologico esercitato sul posto di lavoro. Il mobbing consiste in un insieme di comportamenti violenti perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso. La pratica del mobbing sul posto di lavoro consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica, con il fine di indurre la vittima ad abbandonare il posto di lavoro, anziché ricorrere al licenziamento. Sono esempi di mobbing lo svuotamento delle mansioni tale da rendere umiliante il prosieguo del lavoro, i continui rimproveri e richiami espressi in privato ed in pubblico anche per banalità, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo, oppure l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata o l’interrompere o impedire il flusso di informazioni necessari per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a internet). Per poter parlare di mobbing, l’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, nonché causa di una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico. Il mobbing è, dunque, una forma di violenza fisica o psicologica perpetrata sul luogo di lavoro, determinata da una specifica strategia mirata ad emarginare progressivamente un individuo dal processo lavorativo.
Esistono diversi tipi di mobbing.

Mobbing dal basso o down-up

Il mobber è in una posizione inferiore rispetto a quella della vittima.
Accade quando l’autorità di un capo viene messa in discussione da uno o più sottoposti, in una sorta di ammutinamento professionale generalizzato. In effetti, nelle situazioni di mobbing dal basso sono solitamente più di uno, a volte anche tutti gli operai o i colleghi di un certo reparto, che attuano una vera e propria ribellione contro il capo non accettato.
La vittima si trova quanto mai in una condizione di isolamento totale e devastante, inoltre, essendo il numero dei suoi delatori piuttosto alto, anche il suo tentativo di discolpa risulta arduo; l’ufficio del personale finirà col dare credito alla maggioranza delle voci.
Questa forma di mobbing ha radici molto simili tra le culture. I casi di mobbing dal basso sono comunque abbastanza rari; nell’area tedesca si stima che ricoprano una percentuale del 10% del totale di tutti i casi si mobbing; in Italia la percentuale è addirittura minore. Infatti, se l’antipatia verso il capo è un fenomeno molto diffuso, non altrettanto si può dire dell’aperta manifestazione di questo sentimento.

Mobbing dall’alto o gerarchico

Il mobber è in una posizione superiore rispetto alla vittima: un dirigente, un capo reparto, un capufficio, un collega di anzianità o di mansioni superiori. Questo tipo di mobbing comprende atteggiamenti ed azioni riconducibili alla ben conosciuta tematica dell’abuso di potere, cioè dell’uso eccessivo, arbitrario o illecito del potere che un ruolo professionale implica. Il capo tradizionale, autoritario e severo, è tendenzialmente più soggetto a questa inclinazione, tuttavia sarebbe errato ritenere che il capo "amicone" ne sia immune.
Il discorso è, infatti, più ampio. Il mobbing può insorgere in ognuno dei due casi, quando il capo usa uno di questi due stili di guida in modo non uniforme. Se, infatti, usa il modo di fare autoritario e un po’ dispotico con tutti i suoi sottoposti allo stesso modo, ciò non è automaticamente mobbing. Sino a che egli usa con tutti lo stesso metro e ognuno subisce un trattamento giustamente ripartito e conseguente a ciò che effettivamente ha fatto, egli potrà essere accusato di eccessivo zelo, ma non di mobbing. Se, invece, usa il modo di fare da "amicone", ma più con qualcuno e meno con altri, cioè se mostra di fare delle preferenze, allora il mobbing non è troppo lontano.
In un primo tempo ci si è chiesti se per caso questo tipo di mobbing non derivasse dalla gerarchia organizzativa aziendale stessa, ossia se la struttura gerarchica della ditta non facilitasse o addirittura provocasse l’insorgere del mobbing dall’alto, concentrando potere e capacità decisionali nelle mani di alcuni suoi componenti a scapito di altri. Nonostante questo si è visto che snellire la gerarchia aziendale, portandola al minimo indispensabile, porta tanti vantaggi, ma non in fatto di mobbing dall’alto. Questo inquietante fenomeno, infatti, sembra insorgere ovunque, anche nelle aziende ad organigramma piatto. In ultima analisi, pare che se una persona fa uso sconsiderato del suo potere professionale, per quanto esso sia limitato, possa divenire con molta probabilità un mobber.

Bossing o mobbing strategico

E’ una forma di mobbing che viene usata strategicamente dalle imprese per promuovere l’allontanamento dal mondo del lavoro di soggetti in qualche modo scomodi.
Può trattarsi di soggetti appartenenti ad una gestione precedente o assegnati ad un reparto che deve essere dismesso, di soggetti divenuti troppo costosi (un senior costa di più di due contratti di formazione lavoro) o che non corrispondono più alle attese dell’organizzazione.
E’ prassi frequente nelle imprese che hanno subito ristrutturazioni, fusioni, cambiamenti che abbiano comportato un esubero di personale difficile da licenziare.
Il mobbing, dunque, si trasforma in una vera e propria politica aziendale, assumendo caratteri di normalità e di ineluttabilità.
La strategia dell’espulsione prende forma nell’intenzione del diretto superiore ed è mirata ad estromettere il soggetto dal processo lavorativo (sono stati riferiti casi di bossing della durata di 20 anni). L’obiettivo è quello di isolare la persona che si ritiene rappresenti una minaccia o un pericolo, bloccargli la carriera, toglierli il potere, renderlo innocuo.
Nel bossing la competenza sociale e le caratteristiche di personalità del mobber e della vittima giocano un ruolo decisamente importante.

Mobbing tra pari o orizzontale

Il mobber e la vittima sono allo stesso livello: due colleghi con pari mansioni e possibilità.
Normalmente si assiste tra colleghi a piccole invidie, pettegolezzi, conflitti che serpeggiano sotto la superficie, anche se rivalità ed antipatie personali tra colleghi superano per aggressività ed emotività quelle tra superiori e sottoposti. La ragione di questo è che in gioco non c’è il potere formale, ma quello informale, che comprende una serie di fattori legati alla sensibilità e alla percezione individuale. Unitamente a questa ragione bisogna tenere ben presente il contesto nazionale dove, se alla difficoltà di occupazione, aggiungiamo la mancanza di trasparenza nell’accesso al lavoro e nello sviluppo di carriera, si ottiene un aumento della competizione in grado di destrutturare i rapporti relazionali quindi di facilitare il mobbing tra colleghi.

Doppio mobbing

L’energia distruttiva con cui la vittima è caricata e che trova in famiglia la possibilità di scaricarsi, può giungere ad un livello tale da comportare la saturazione delle riserve familiari. La famiglia latina, protettrice e generosa, improvvisamente cambia atteggiamento, cessando di sostenere la vittima e cominciando invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del mobbing. Ciò significa che la famiglia si richiude in se stessa, per istinto di sopravvivenza, e passa sulla difensiva.
La vittima, infatti, è diventata una minaccia per l’integrità e la salute del nucleo familiare, che ora pensa a proteggersi prima, ed a contrattaccare poi.
Si tratta naturalmente di un processo inconscio: nessun componente sarà mai consapevole di aver cessato di aiutare il proprio caro.
E’ in questi casi che parla di doppio mobbing, il mobbizzato perde la valvola di sfogo rappresentata dalla famiglia quindi è praticamente accerchiato. Sono questi infatti i momenti di maggiore pericolosità per una vittima, quando cioè si sente veramente abbandonato da tutti.

Studio del fenomeno

Cause soggettive

Lo stress

Con questo termine ci si riferisce alle reazioni con cui un individuo reagisce agli stimoli interni o esterni, definiti agenti stressori o stressor, cercando di farvi fronte attraverso un insieme di risposte funzionali alla situazione. Le risposte possono essere classificate in base al modello di Selye "sindrome generale di adattamento", introdotto per descrivere la reazione biologia a uno stress fisico intenso e prolungato, che comprende tre fasi:
  1. reazione di allarme, consiste in uno shock iniziale con diminuita capacità di resistenza. Il soggetto può reagire attraverso la mobilitazione delle proprie energie e risorse per far fronte alla situazione di allarme;
  2. resistenza o omeostasi, il soggetto attraverso i meccanismi della ristrutturazione e della difesa, raggiunge un nuovo equilibrio. Se il fattore di stress persiste o se l’organismo non è in grado di mettere in atto risposte adeguate, subentra la terza fase;
  3. esaurimento, in cui l’organismo muore o soffre danni irreversibili.
Alcuni autori (per es. Lazarus, 1966) ritengono che non sia possibile definire oggettivamente quali eventi o situazioni abbiano i requisiti necessari per essere considerati fattori di stress. L’accento viene posto sugli aspetti cognitivi dello stress; vale a dire, è il modo in cui soggettivamente percepiamo o valutiamo l’ambiente a determinare se un fattore di stress è presente o meno. In questo caso la risposta dell’individuo è suddivisa in tre stadi:
  1. l’individuo analizza la situazione stressante, la risposta dipende dalla sua percezione di minaccia, di perdita, di danno, di tentazione;
  2. attraverso il meccanismo di coping (strategie di reazione messe in atto per affrontare un problema o per gestire le emozioni che esso produce), il soggetto esamina le diverse strategie di difesa atte al superamento della situazione percepita come stressante. Dopo aver compiuto questa analisi il soggetto può mettere in atto i comportamenti strategici di difesa più idonei;
  3. il soggetto verifica il risultato dei suoi comportamenti, tesi questi ultimi a far fronte agli agenti stressanti; attraverso questa verifica può valutarne l’efficacia e, qualora essi non lo siano stati, correggerli. Per cui le risposte messe in atto dai soggetti di fronte alla situazione stressante sono sempre specifiche ed individuali, dipendono sia da condizioni oggettive, cioè dalle condizioni dell’ambiente circostante, ad esempio: quantità di luce e di temperatura, il rumore, l’inquinamento ecc., sia da condizioni soggettive, cioè dalle percezioni individuali delle situazioni.
Abbiamo detto che il valore attribuito ad una situazione, perché sia definita stressante, è esclusivamente personale; il sistema percettivo crea diversi scenari della realtà e diverse visioni della stessa. Gli individui orientano la propria percezione concentrandosi e ponendo l’attenzione soprattutto verso ciò che li attira maggiormente, lo stress è, quindi, influenzato da quegli elementi umani che si manifestano nell’interazione con l’ambiente; in questo caso l’ambiente che prenderemo in considerazione è quello lavorativo.
Le caratteristiche del sistema percettivo che influenzano lo stress sono tre: l’importanza attribuita alla situazione, per esempio chi ha trovato un posto di lavoro, magari dopo molti tentativi, lo considera importante, questo influenzerà il suo comportamento. La motivazione consiste in un processo che attribuisce al comportamento una certa intensità, una particolare direzione ed una specifica sequenzialità, essa dipende dal sistema di valori che caratterizza il soggetto all’interno della sua cultura di appartenenza. L’incertezza di riuscire nell’impresa agisce sullo stress in rapporto a quanto un soggetto si ritiene in grado di farcela o meno a superare l’ostacolo; più ci si percepisce vicini al suo superamento e più lo stress è alto.

Conflitto

Ci si riferisce al conflitto sia in riferimento al significato etimologico del termine, cioè guerra, contesa, sia per indicare tutte quelle situazioni in cui due o più elementi, collegati tra loro, risultano discrepanti, dissonanti, opposti, disarmonici e di forte contrasto. Può essere, inoltre, definito come un’attivazione simultanea di due forze di valore uguale ma dirette in senso opposto. Queste due forze, bisogni, o impulsi possono agire contemporaneamente su un individuo. Sul posto di lavoro i conflitti possono essere di tipo emotivo, se si verificano dei disaccordi fra i desideri, i bisogni, le istanze, le tendenze e le valenze affettive del lavoratore; di tipo cognitivo, se si verificano dissonanze fra diversi aspetti conoscitivi del lavoro.

Conflitti di tipo emotivo

  • l’insicurezza e la paura di perdere il proprio posto di lavoro, soprattutto quando il posto di lavoro rappresenta non solo una necessità economica ma determina anche una posizione sociale. E’ ovviamente un conflitto che presenta una frequenza direttamente proporzionale al livello di disoccupazione;
  • la mancanza di riconoscimento, di sostenimento, e di possibilità di promozioni;
  • la fine della carriera, può provocare sentimenti di gelosia nei confronti dei colleghi che rimangono in azienda.
Conflitti di tipo cognitivo
  • gli intrighi e la reticenza di informazioni, diretta conseguenza di una mancanza di comunicazione e di informazione;
  • compiti oscuri ed incongruenti, causano nel lavoratore una situazione percettiva di incongruenza cognitiva, difficile da risolvere;
  • la noia e la monotonia sul posto di lavoro, sviluppano nel soggetto reazioni di stanchezza, di apatia, di aggressività;
  • richieste eccessivo o insufficienti, possono essere determinanti nel causare azioni vessatorie poiché i lavoratori possono sentirsi sopravvalutati o sottovalutati. Questo influisce sicuramente sulla loro percezione dell’autostima, che tanto più è bassa, tanto più essa è causa di depressione e frustrazione;
  • l’organizzazione del lavoro, può causare mobbing. In particolare l’eccesso di lavoro da un punto di vista quantitativo e l’insufficienza di lavoro in senso qualitativo, dovuti ad una cattiva distribuzione, direzione del lavoro.

Approccio "vittimista" di Heinz Leymann

La sua analisi parte dal presupposto che il mobbing sia prima di tutto un problema della vittima, ovvero una malattia che la vittima contrae sul luogo di lavoro.
Leymann attribuisce la causa scatenante del mobbing al conflitto sul luogo di lavoro, ma da dove nasce una situazione conflittuale? Secondo l’autore qualsiasi azienda tende a garantire al suo interno rapporti equilibrati e normali, tutto ciò che viene sentito come al di fuori di questa normalità risulta un problema. Se questi problemi non si risolvono completamente, allora nascono i conflitti; caratterizzati dalla discordanza di opinioni. Infatti ognuna delle parti in causa è convinta di essere nel giusto e non è disposta a scendere a compromessi.
Secondo Leymann sono individuabili 6 campi in cui possono svilupparsi dei conflitti dai quali può scaturire a sua volta il mobbing, i primi 3 sono fattori esterni al gruppo di lavoro, gli altri 3 invece, più legati ad esso.
  1. Organizzazione del lavoro. Una cattiva organizzazione e distribuzione del lavoro provoca sicuramente dei conflitti, in particolare vengono individuati due errori fondamentali: l’eccesso di lavoro in senso quantitativo e l’insufficienza di lavoro in senso qualitativo.
  2. Mansioni lavorative. Si tratta della qualità del lavoro, se esso è monotono e squalificante, aumenteranno le probabilità che un lavoratore ricorra al mobbing per movimentare il suo tempo e sfuggire alla noia.
  3. Direzione del lavoro. Una buona gestione del personale dovrebbe prima di tutto favorire la comunicazione tra i lavoratori, limitando il più possibile le organizzazioni del lavoro come la catena di montaggio o il lavoro a turni. Questi due sistemi, infatti, tendono all’isolamento dell’individuo, un’alternativa per evitare le conseguenze negative di questi due tipi di lavoro sta nella pratica del job-rotation, ossia nella rotazione regolare delle mansioni. Ulteriormente, spesso dalle aziende viene trascurato l’aspetto della socializzazione, per esempio i nuovi assunti vengono inseriti all’interno dei reparti senza che vengano presentati ai futuri colleghi. Questo favorisce la considerazione del nuovo arrivato come un estraneo, quindi se il nuovo assunto non riesce ad inserirsi con le proprie forze ed a socializzare c’è il rischio che possa diventare una vittima del gruppo preesistente. Infine Leymann individua un altro errore spesso commesso dalla direzione aziendale: il restare sorda alle proposte ed alle critiche provenienti dai dipendenti stessi.
  4. Dinamica sociale del gruppo di lavoro. Un gruppo di lavoro messo in qualche modo sotto pressione tenderà a sviluppare più facilmente conflitti rispetto ad un gruppo tranquillo. Il gruppo infatti tende sempre a trovare un equilibrio: se qualcosa, come appunto una pressione, interviene a sbilanciarlo, esso si difenderà rinforzando le sue regole interne; generalmente in questo processo tenderà a cercare una vittima, un capro espiatorio in uno dei suoi membri, che risulterà facilmente mobbizzato.
  5. Teorie sulla personalità. Leymann afferma ripetutamente che il carattere della vittima è indipendente dal mobbing. Il mobbing può essere subito da qualsiasi persona in qualsiasi posizione poiché esso dipende sempre dalle circostanze e dall’ambiente sociale. In realtà è il carattere del mobber quello a cui si dovrebbe fare più attenzione, è infatti lui che fa le regole, non la sua vittima; alla quale spesso, per errore, viene attribuita la responsabilità della situazione.
  6. Funzione nascosta della psicologia nella società. Leymann critica l’abuso che nella nostra società si tende a fare dei termini "psicologia" e "psicologo". Questa tendenza rende le cose molto più facili al mobber quando accusa la sua vittima di essere la causa di tutti i problemi dell’ufficio.

Approccio "colpevolista" di Tim Field

Questo approccio è tutto incentrato sul "bullo", il capo o il collega che fa mobbing. Infatti secondo Field la causa del mobbing è la personalità disturbata del collega o del capo prepotente. Questo disturbo della psiche viene descritto con toni particolarmente allarmanti ed emotivi.
Il bullo è una persona che:

  • non ha mai imparato ad assumersi la responsabilità per il proprio comportamento;
  • vuole godere i vantaggi di una vita adulta, ma non sa e non vuole accettarne le responsabilità;
  • nega ogni responsabilità per il proprio comportamento e le conseguenze di esso;
  • non sa e non vuole riconoscere gli effetti del proprio comportamento sugli altri;
  • non vuole riconoscere che ci potrebbero essere altre maniere di comportarsi.
Secondo l’autore il bullo è un sociopatico affetto da patologia ossessivo-compulsiva. I critici di Field sostengono che il mobbing non è un problema della singola persona, ma dell’azienda intera. Crearsi un mostro a cui attribuire tutte le colpe, la criminalizzazione del mobber, assomiglia molto alla logica del capro espiatorio che rappresenta un pericolo più per la vittima che per il mobber.

Cause oggettive

Approccio "culturale" di Harald Ege

Questo approccio è caratterizzato da una particolarità: tiene conto delle differenze culturali esistenti fra i diversi paesi interessanti dal mobbing. Secondo Ege bisogna guardare alla causa culturale del mobbing, cioè ai valori predominanti nei diversi paesi e nelle diverse civiltà. Sono tanti i fattori che determinano il "contesto culturale", ossia le cose in cui gli abitanti di un certo paese credono e in base alle quali decidono le proprie azioni:
  • l’importanza del lavoro all’interno della vita umana;
  • la competitività sul luogo di lavoro, se il contesto favorisce la concorrenza fra i lavoratori, il grado di conflittualità aumenta e così il rischio di mobbing;
  • il livello di aggressività giudicato tollerabile;
  • gli ammortizzatori sociali, il mobbing ha effetti meno gravi se i servizi sociali e le reti di solidarietà familiare o comunitaria funzionano a dovere;
  • l’apertura alla diversità e alla multiculturalità, se la forza lavoro è molto disomogenea per sesso, età ed etnia, e se il paese è tradizionalmente portato all’integrazione delle culture estranee, diminuisce il rischi di mobbing su capri espiatori.
A questo approccio la critica mossa più spesso è relativa alla difficoltà di definire con precisione il contesto culturale di riferimento e quanto possa influire realmente sul comportamento umano; soprattutto considerando il quadro attuale, dove le usanze nazionali vengono spazzate via dalla globalizzazione, e contemporaneamente si assiste alla nascita di nuove sub-culture e contaminazioni culturali.

Approccio "della violenza organizzativa" di Paul McCarthy

Secondo questo autore oggi ci troviamo di fronte ad una nuova generazione del mobbing, che si sta allargando e raffinando.
Per capire meglio ci rifacciamo ad una serie di elementi messi in evidenza da McCarthy: negli ultimi anni l’economia mondiale ha conosciuto enormi trasformazioni tecnologiche, commerciali e finanziarie. Fino a pochi anni fa l’economia era garantita dallo Stato, quindi anche i lavoratori erano protetti dallo stesso, ci si trovava in un contesto di "capitalismo organizzato". Oggi, invece, siamo di fronte al "capitalismo del caos", cioè mercati globali caratterizzati da grande incertezza e da un livello molto elevato di competizione tra i lavoratori. E’ facile comprendere come tutto ciò abbia un effetto sulle aziende provocando mobbing. Le aziende moderne devono sopravvivere nei mercati globali, dove la concorrenza è molto alta, da qui la necessità di essere sempre più flessibili e leggere e soprattutto di diminuire il costo del lavoro. Per alleggerirsi le aziende licenziano molti dipendenti, ingegnerizzano le funzioni e si trasformano in reti di imprese; ciò favorisce la precarizzazione dei lavoratori licenziati, che perdono le garanzie salariali di un tempo e si abituano a vivere sotto la costante minaccia di perdere il proprio posto.
I nuovi postulati aziendali, sono infatti, l’ottimizzazione del lavoro, l’utilizzo dei tempi morti, il dipendente molto attivo e sempre attento alle esigenze funzionali. Basta, quindi, con dipendenti svogliati, non efficienti, carenti di salute e non più produttivi di valore aggiunto. Questi sono e vengono considerati esuberi, da recidere attraverso cassa integrazione, prepensionamenti, quando possibile anche con licenziamenti. Chi rimane è costretto invece ad affrontare ambienti lavorativi in continua evoluzione, con sempre nuove cose da imparare (formazione continua) e dove nessuno vale più per le proprie capacità individuali, ma per la propria abilità di integrarsi con gli altri (multiskilling). Spesso però la formazione e l’aggiornamento professionale dei lavoratori meno giovani rappresenta un notevole costo per l’azienda, tanto che sovente i vertici aziendali preferiscono assumere nuove risorse.
Non va dimenticato, tra l’altro, il fenomeno recentemente emerso e subito cresciuto, definito anche contrattualmente "lavoro interinale" o "lavoro in affitto". L’utilizzo di tale forma di lavoro, mentre consente alle aziende di poter abbattere i costi del personale, senza preoccupazione alcuna per il mantenimento dei livelli occupazionali; per i lavoratori da eliminare o a rischio costituirà causa di mobbing pressoché certa e grave, si pensi in proposito cosa significhi per un’azienda in termini di riduzione di costo del lavoro, l’eliminazione dell’annoso problema delle malattie, maternità, delle ferie e dei tempi morti, che di fatto i relativi oneri non graverebbero più sul bilancio aziendale.
Un ultimo punto è rappresentato dalle fusioni tra due società dello stesso settore. Gli accorpamenti creano lavoratori "doppioni", vale a dire soggetti che svolgono le stesse funzioni. Questo può provocare, sia un livello di competitività molto elevato tra le risorse umane, sia un’ "eliminazione fisiologica" dei dipendenti acquistati dall’azienda più forte.
Quindi il mobbing è un fenomeno provocato dal contesto economico, più ancora che da quello culturale. La struttura organizzativa delle aziende moderne è, secondo McCarthy, la causa del mobbing.
"Le imprese permettono alla violenza del mercato libero e globale di introdursi nelle proprie dinamiche interne. In più sembra che le pressioni generate da queste forze abbassino la soglia oltre la quale i dirigenti, specie quelli che operano al limite delle proprie capacità, possono adottare comportamenti scorretti." (McCarthy 1996, When the mask slips: inappropriate coercion in organisations undergoing restructuring).
A questo proposito una situazione creativa di disagio, che sfocia in mobbing, è ciò che viene impropriamente definito "sistema di gestione per obiettivi", basato su budget costantemente aumentati e su ossessivi e asfissianti controlli, in gergo denominati "monitoraggio dei dati". Questo nuovo modo di gestire, chiaramente introdotto come sistema imposto dall’esigenza di avere costantemente sotto controllo i dati reddituali delle aziende e di soccorrere con tempestivi, adeguati correttivi eventuali situazioni aziendali deficitarie, nei fatti si traduce in veri e propri atti vessatori, in una continua e sottile manipolazione del personale lavorativo a tutti i livelli e conseguentemente in un inesorabile sfruttamento del lavoro dipendente.
Un così perverso e manipolatorio sistema aziendale, che dell’improprio gestire per obiettivi, ha di fatto un’arma psicologicamente distruttiva nei confronti di chiunque non riesca a realizzare o mantenere livelli di altissimo rendimento, determina situazioni di grave sofferenza e di intollerabile stress nell’ambiente di lavoro.

I fattori a rischio

La posizione assunta dall’Istituto sul tema delle patologie psichiche determinate dalle condizioni organizzativo/ambientali di lavoro trova il suo fondamento giuridico nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988 e nel Decreto Legislativo n. 38/2000 (art. 10, comma 4), in base ai quali sono malattie professionali, non solo quelle elencate nelle apposite Tabelle di legge, ma anche tutte le altre di cui sia dimostrata la causa lavorativa.
Secondo un’interpretazione aderente all’evoluzione delle forme di organizzazione dei processi produttivi ed alla crescente attenzione ai profili di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa consente di ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo produttivo aziendale (siano esse tabellate o non) ma anche quella riconducibile all’organizzazione aziendale delle attività lavorative.
I disturbi psichici quindi possono essere considerati di origine professionale solo se sono causati, o con causate in modo prevalente, da specifiche e particolari condizioni dell’attività e della organizzazione del lavoro. Si ritiene che tali condizioni ricorrano esclusivamente in presenza di situazioni di incongruenza delle scelte in ambito organizzativo, situazioni definibili con l’espressione “costrittività organizzativa”.
Le situazioni di “costrittività organizzativa” più ricorrenti sono riportate di seguito, in un elenco che riveste un imprescindibile valore orientativo per eventuali situazioni assimilabili.

Elenco delle “costrittività organizzative”
  • Marginalizzazione dalla attività lavorativa.
  • Svuotamento delle mansioni.
  • Mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata.
  • Mancata assegnazione degli strumenti di lavoro.
  • Ripetuti trasferimenti ingiustificati.
  • Prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto.
  • Prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici.
  • Impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie.
  • Inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro.
  • Esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale.
  • Esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.
  • Nel rischio tutelato può essere compreso anche il cosiddetto “mobbing strategico” specificamente ricollegabile a finalità lavorative. Si ribadisce tuttavia che le azioni finalizzate ad allontanare o emarginare il lavoratore rivestono rilevanza assicurativa solo se si concretizzano in una delle situazioni di “costrittività organizzativa” di cui all’elenco sopra riportato o in altre ad esse assimilabili.
Le incongruenze organizzative, inoltre, devono avere caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, come tali, verificabili e documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e non suscettibili di discrezionalità interpretativa.

Sono invece esclusi dal rischio tutelato:
  • fattori organizzativo/gestionali legati al normale svolgimento del rapporto di lavoro (nuova assegnazione, trasferimento, licenziamento);
  • le situazioni indotte dalle dinamiche psicologico-relazionali comuni sia agli ambienti di lavoro che a quelli di vita (conflittualità interpersonali, difficoltà relazionali o condotte comunque riconducibili a comportamenti puramente soggettivi che, in quanto tali, si prestano inevitabilmente a discrezionalità interpretative).

Effetti sulla vittima

Relazionali

Sembrerebbero essere una peculiarità dei paesi mediterreanei, dove il legame familiare è molto forte. Il legame emotivo tra i diversi membri della famiglia può costituire, all’inizio del mobbing, un vantaggio perché l’interessato può scaricare le sue frustrazioni sugli affetti familiari. Si è riscontrato che alla lunga le famiglie dei mobbizzati non riescono più a sostenere psicologicamente la vittima. Ben presto quest’ultima diventa una minaccia per la salute delnucleo familiare. Spesso questo processo può provocare separazioni o divorzi all’interno delle famiglie dei mobbizzati; in alcune famiglie, la perdita del posto di lavoro di un componente, equivale a perdere la possibilità di rapporto extrafamiliare di qui dispone l’individuo.

Economici

In questo caso è facile ipotizzare le conseguenze devastanti che si vengono a creare quando viene a mancare il reddito.


Disturbi dell’umore

Questa sezione comprende i disturbi che hanno come caratteristica predominante un’alterazione dell’umore. Ovviamente non tutti sono correlati al mobbing, ma parlare solo di depressione è assolutamente riduttivo. La sezione è divisa in tre parti.
  • Episodi di Alterazione dell’Umore:
    • Episodio Depressivo Maggiore.
    • Episodio Maniacale.
    • Episodio Misto.
    • Episodio Ipomaniacale.
  • Disturbi Depressivi:
    • Disturbo Depressivo Maggiore. Caratterizzato da uno o più Episodi Depressivi Maggiori (per almeno due settimane umore depresso o perdita di interesse, accompagnati da almeno altri quattro sintomi depressivi).
    • Disturbo Distimico. Caratterizzato dalla presenza per almeno due anni di umore depresso quasi ogni giorno, accompagnato da altri sintomi depressivi che non soddisfano i criteri per un Episodio Depressivo Maggiore.
    • Disturbo Depressivo Non Altrimenti Specificato. Viene incluso per codificare i disturbi con manifestazioni depressive che non soddisfano i criteri per Disturbo Depressivo Maggiore, Disturbo Distimico, Disturbo dell’Adattamento con Umore Depresso o Disturbo dell’Adattamento con Umore Depresso misto ad Ansia (o sintomi depressivi sui quali siano disponibili informazioni inadeguate o contraddittorie).
  • Disturbi Bipolari (che si distinguono dai Disturbi Depressivi per la presenza di Episodi Maniacali, Misti o Ipomaniacali):
    • Disturbo Bipolare I. Caratterizzato da uno o più Episodi Maniacali o Misti, solitamente accompagnati da Episodi Depressivi Maggiori.
    • Disturbo Bipolare II. Caratterizzato da uno o più Episodi Depressivi Maggiori accompagnati da almeno un Episodio Ipomaniacale.
    • Disturbo Ciclotimico. Caratterizzato dalla presenza, per almeno due anni, di numerosi periodi con sintomi maniacali che non soddisfano i criteri per l’Episodio Maniacale e di numerosi periodi con sintomi depressivi che non soddisfano i criteri per l’Episodio Depressivo Maggiore.
    • Disturbo Bipolare Non Altrimenti Specificato. Viene incluso per codificare i disturbi con manifestazioni bipolari che non soddisfano i criteri per alcuno specifico Disturbo Bipolare definito in questa sezione (o i sintomi bipolari sui quali siano disponibili informazioni inadeguate o contraddittorie).

Disturbi d’ansia

L’ansia è uno stato di allarme, di marcata inquietudine e attesa affannosa di un pericolo imminente e indefinibile. Tale stato si associa a sentimenti di incertezza e a vissuti di impotenza. A differenza della paura che è una risposta emozionale a condizioni di pericolo reale esterno ben riconoscibile, l’ansia è una paura senza oggetto, compare senza che vi sia una reale minaccia riconoscibile dal soggetto. Essa diviene patologica quando l’individuo non riesce più a dare delle risposte funzionali ai problemi lavorativi e ne risente in misura tale da non poter raggiungere scopi realistici e comuni soddisfazioni.
Lo stato d’ansia si può esprimere acutamente sotto forma di crisi oppure in modo più persistente e continuo.
E’ possibile riscontrarlo anche come sintomo di altre patologie, in questo caso si parla di ansia psichica, legata a disturbi più strettamente psichici o di ansia somatica o somatizzazione d’ansia,con disturbi più strettamente somatici e neurovegetativi.
Nell’ambito lavorativo si possono riscontrare principalmente due disturbi d’ansia:
  • Disturbo d’attacco di panico (DAP): si manifesta con una crisi d’ansia acuta spontanea ed inaspettata dalla durata molto breve. Durante questo lasso di tempo il soggetto vive un’esperienza intensa e traumatica di paura o disagio accompagnata da un senso di pericolo o di catastrofe imminente con conseguenti comportamenti di evitamento delle situazioni in cui il soggetto ha sperimentato per la prima volta la crisi; oppure di rassicurazione. L’attacco insorge inaspettatamente, senza preavviso, raggiunge l’apice rapidamente: di solito bastano 10 minuti o meno. Questo disturbo è caratterizzato da una serie di sintomi quali: dispnea, palpitazioni, nausea, dolore al petto, sensazioni di soffocamento e asfissia; capogiri, sudorazione e tremori; intensa apprensione, terrore.Durante l’attacco gli individui riferiscono di aver pensato di essere in procinto di morire, di poter perdere il controllo, di avere un infarto del miocardio o un ictus, o infine di impazzire.Nei casi di mobbing possono verificarsi due tipi specifici di attacchi di panico:
    1. attacchi di panico causati dalla situazione (provocati): quando sono fortemente associati a dei fattori scatenanti situazionali;
    2. attacchi di panico sensibili alla situazione: quando fra l’esposizione allo stimolo o situazione e l’attacco esiste sì una relazione ma meno forte.
  • Disturbo post traumatico da stress (PTSD): risposta estrema ad un fattore altamente stressogeno, risposta che comprende un aumento notevole del livello d’ansia, l’evitamento degli stimoli associati al trauma e un ottundimento della reattività emozionale. I sintomi di questo disturbo sono raggruppati in tre categorie principali, la diagnosi richiede che i sintomi appartenenti a ciascuna di queste categorie persistano per più di un mese.
    1. L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente dall’individuo attraverso: ricordi spiacevoli e intrusivi dell’evento, comprendenti immagini, pensieri, percezioni; incubi notturni; flashback. Il rivivere l’evento traumatico sarebbe la caratteristica centrale del disturbo, in quanto lo si attribuisce all’incapacità del soggetto di integrare l’evento traumatico in uno schema persistente.
    2. Evitamento degli stimoli associati con l’evento e attenuazione della reattività generale. La persona cerca di evitare di pensare al trauma o di essere esposta a stimoli che possano riportarglielo alla mente; a volte può essere incapace di ricordare aspetti importanti dell’evento traumatico. L’ottundimento della reattività generale si manifesta nel diminuito interesse per gli altri, in un senso di distacco e di estraneità, e nell’incapacità di provare emozioni positive. Questo disturbo è caratterizzato quindi, da fluttuazione: la persona passa attraverso fasi alterne di ottundimento e di riaffioramento dell’esperienza traumatica.
    3. Sintomi di aumentata attivazione fisiologica. Questi sintomi comprendono la difficoltà di addormentarsi o a mantenere il sonno, la difficoltà a concentrarsi, l’ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme. La diagnosi di disturbo post traumatico da stress, sta iniziando ad essere accettata, sia in sede psichiatrica che di medicina del lavoro e di medicina legale, nei paesi dell’Europa del Nord e Centrale, come conseguenza di violenza psicologica sul posto di lavoro, mobbing.
Per completezza, di seguito, tutti i disturbi d’ansia elencati dal DSM-IV
  • Agorafobia: è l’ansia o l’evitamento verso luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto in caso di un Attacco di Panico o di sintomi tipo panico.
  • Agorafobia Senza Anamnesi di Disturbo di Panico: è caratterizzata dalla presenza di Agorafobia e di sintomi tipo panico senza anamnesi di Attacchi di Panico inaspettati.
  • Fobia Specifica: è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa provocata dall’esposizione a un oggetto o a una situazione temuti, che spesso determina condotte di evitamento.
  • Fobia Sociale: è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa provocata dall’esposizione a certi tipi di situazioni o di prestazioni sociali, che spesso determina condotte di evitamento.
  • Disturbo Ossessivo-Compulsivo: è caratterizzato da ossessioni (che causano ansia o disagio marcati) e/o compulsioni (che servono a neutralizzare l’ansia).
  • Disturbo Acuto da Stress: è caratterizzato da sintomi simili a quelli del Disturbo Post-traumatico da Stress che si verificano immediatamente a seguito di un evento estremamente traumatico.
  • Disturbo d’Ansia Generalizzato: è caratterizzato da almeno 6 mesi di ansia e preoccupazione persistenti ed eccessive.
  • Disturbo d’Ansia Dovuto ad una Condizione Medica Generale: è caratterizzato da sintomi rilevanti di ansia ritenuti conseguenza fisiologica diretta di una condizione medica generale.
  • Disturbo d’Ansia Indotto da Sostanze: è caratterizzato da sintomi rilevanti di ansia ritenuti conseguenza fisiologica diretta di una droga di abuso, di un farmaco o dell’esposizione ad una tossina.

Il Mobbing nel mondo infermieristico

Origine della professione infermieristica in Italia

Nella prima parte, grazie al contributo teorico di tipo socio-psicologico, è stato possibile analizzare il mobbing nelle sue caratteristiche generali con particolare attenzione all’individuazione e descrizione delle cause e dei fattori che ne possono favorire l’insorgenza all’interno dei luoghi di lavoro. In questo ambito, prima di procedere ad un’analisi delle organizzazioni lavorative sociosanitarie in cui è inserita la figura infermieristica, può essere utile ripercorrere brevemente la storia della professione infermieristica in Italia, per ottenere - in un’ottica evolutiva - l’identikit dell’infermiere e trovare le ragioni di una sua ambigua collocazione all’interno delle organizzazioni professionali, ovvero in posizioni funzionali in cui l’operatore infermiere era chiamato a svolgere attività in parte autonome ed in parte dipendenti dalla sfera decisionale di altri professionisti. Questa contraddizione ha esposto nel tempo gli infermieri a situazioni di insoddisfazione lavorativa, a stress, a conflitti intra e interprofessionali, condizioni che potrebbero oggi,così come nel passato, costituire fattori predisponenti all’insorgenza del fenomeno mobbing.
In Italia per lungo tempo, nonostante l’attivazione delle Scuole professionali per la formazione infermieristica di base e corsi di specializzazione postbase, sino agli anni ’90 gli infermieri sono stati considerati professione sanitaria ausiliaria (art. n.100 Testo Unico delle Leggi Sanitarie 27 Luglio 1934, n.1265) volendo con questa denominazione da un lato sottolineare la subordinazione dell’infermiere al medico e dall’altro riconoscere una certo grado di autonomia professionale, quel tanto che era necessario per far assumere all’infermiere responsabilità assistenziali ed organizzative indispensabili per una gestione complessiva dell’assistenza ai pazienti nei momenti di assenza del medico. La subordinazione, prevista e normata dal R.D. 26 Maggio 1940, n. 1310 e successive modifiche realizzate con il D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, trovava la sua espressione nel mansionario, un elenco di attività assistenziali suddivise in tre aree:
  1. attività che l’infermiere era chiamato a svolgere in totale autonomia;
  2. attività da svolgere su base di prescrizioni mediche;
  3. attività da eseguire sulla base di prescrizioni e controllo medico.
Questa subordinazione tecnica era tuttavia spesso vanificata poiché, a causa di situazioni di emergenza, oppure a causa della complessità dei servizi o per la momentanea assenza del medico, gli infermieri erano chiamati ad assumersi, in modo autonomo, tutte le responsabilità clinico/assistenziali legate al caso. Tali situazioni hanno spesso esposto gli infermieri ad un profondo disagio psicologico, riconducibile al dilemma del fare o non fare, cioè scegliere se agire tempestivamente in modo da salvaguardare la salute del paziente o, nel rispetto della legge, non agire ed aspettare il medico per ottenere indicazioni scritte. In realtà, avvalendosi della propria competenza ed esperienza professionale, gli infermieri hanno spesso “infranto” la legge, pianificando interventi assistenziali finalizzati al ripristino delle condizioni di salute dei pazienti loro affidati. Ciò ha provocato negli infermieri un ulteriore malessere, legato a frequenti conflitti con i medici nonché all’interno dello stesso gruppo professionale nel momento in cui le scelte operative di ciascun infermiere, dettate da livelli diversi di competenze e professionalità, si differenziavano l’una dall’altra. Questi ed altri fattori, che emergeranno dalla sintetica descrizione storica dell’assistenza infermieristica, hanno contribuito a delineare un’immagine della professione poco attraente, con deboli aspettative, divisa al suo interno, facilmente esposta ad azioni scorrette e fortemente limitanti da parte di altre categorie professionali nelle varie realtà lavorative. Pertanto l’analisi storica, oltre ad indicare come si è giunti all’attuale profilo di infermiere e alla sua posizione all’interno dei sistemi sociosanitari, può contribuire ad individuare, rispetto all’intera categoria professionale, cause o elementi predisponenti ad azioni di mobbing.

Il periodo dal 1925 agli anni ’60

Sino al 1925, in Italia l’assistenza agli infermi era prerogativa esclusiva di Ordini Religiosi che reclutavano per l’assistenza ragazze povere o bisognose oppure uomini disoccupati, con l’intento di impiegare queste persone che il più delle volte avevano capacità intellettuali alle mansioni più pesanti, confondendoli ruoli di personale di assistenza con quello di ausiliario (facchini). Il personale era impreparato dal punto di vista tecnico ed umano nonché scarsamente retribuito. Nel 1901 si costituì il Consiglio Internazionale delle Infermiere, associazione infermieristica internazionale che si propose di tracciare linee guida per lo sviluppo completo della personalità dell’infermiere, considerata come donna e cittadina in tutti i Paesi. Anche in Italia si sollevò la questione femminile. Nel 1908 si svolse a Roma il primo Congresso Femminile Nazionale per l’analisi della questione femminile relativamente alla sua indipendenza economica e morale da ottenere tramite il lavoro. In questo ambito rientrò anche la questione della formazione delle infermiere, attività lavorativa che poteva nobilitare la donna e corrispondere alle sue caratteristiche naturali. Occorreva però non solo regolamentare la formazione infermieristica, ma rimuovere anche tutti quei fattori ostacolanti lo sviluppo delle condizioni sociali e culturali dell’intera popolazione femminile. In quegli anni le poche infermiere volontarie della Croce Rossa, nobildonne italiane dedite all’assistenza ai bisognosi e agli ammalati, cominciarono insieme a gruppi di medici, sulla scia dell’influsso del pensiero e delle prime scuole dell’infermiera inglese Florence Nithingale, a sviluppare l’idea di formare una leadership infermieristica indipendente dal personale religioso, formata a livello tecnico/pratico, da poter impiegare e retribuire per attività di assistenza infermieristica negli ospedali e nel territorio.
Furono così istituite e regolamentate le prime Scuole convitto per Infermiere Professionali per la formazione infermieristica di base con il R.D.L.15 agosto 1925 n.1832. (“Facoltà della istituzione di Scuole Convitto professionali” per Infermiere e di “Scuole specializzate di medicina pubblica, igiene ed assistenza sociale” per “Assistenti Sanitarie Visitatrici” e successivo regolamento R.D. 21 novembre 1929, n. 2330.) Sulla base delle disposizioni contenute nella norma, le scuole - poste sotto il controllo dello Stato - svolgevano corsi biennali per il conseguimento del diploma di Stato per l’esercizio della professione di infermiera. Si istituì un successivo terzo anno di corso per l’abilitazione a funzioni direttive (caposala) e per assistente sanitaria visitatrice (infermiera di comunità con funzioni preventive). Le scuole, inserite in ospedali o cliniche, possedevano un proprio Statuto e Regolamento che rendeva possibile una certa autonomia nelle gestione delle attività didattiche. Le scuole, esclusivamente femminili ed a pagamento, avevano l’obbligatorietà dell’internato, una sorta di collegio nel quale le allieve trascorrevano i due anni di formazione teorico/pratica. La Direttrice della scuola, infermiera con il titolo di caposala, dipendeva dal Direttore Didattico (figura medica spesso coincidente con quella del Direttore Sanitario), dal Direttore Sanitario e dal Direttore Amministrativo della struttura ospedaliera in cui era inserita la scuola. Il Direttore Didattico convocava e presiedeva i Consigli dei Docenti mentre la Direttrice della scuola rispondeva al Direttore della sua attività di coordinamento e di docenza. La direttrice, più che dell’insegnamento, era chiamata ad occuparsi dell’educazione morale delle allieve, dei problemi disciplinari e della conservazione degli oggetti e del materiale di cui la scuola disponeva. Doveva inoltre organizzare il servizio di assistenza svolto dalle allieve, cioè l’attività di tirocinio clinico considerato come vero e proprio lavoro destinato a soddisfare più l’esigenza dell’ospedale che non quelle della loro formazione. La subordinazione della Direttrice infermiera al Direttore Didattico e/o al Direttore Sanitario verrà in parte superata dal D.P.R. n.761 del 1979, decreto con il quale si darà riconoscimento alla dirigenza infermieristica nel settore della didattica e dell’organizzazione dei servizi. Era preferibile che le allieve che intendevano frequentare la scuola possedessero il titolo di scuola media di primo grado. Poiché tale titolo non era obbligatorio, in assenza di questo venivano accettate anche le candidate in possesso della quinta elementare. A livello nazionale, questa situazione determinò negli anni una differenziazione tra quelle scuole che negli anni successivi posero attenzione al livello di cultura e di formazione delle candidate e quelle per le quali era sufficiente che la candidata fosse in grado di leggere e scrivere. Era previsto un periodo di prova, circa tre mesi, al termine del quale veniva espresso un giudizio di idoneità, necessario per la prosecuzione del corso. Le allieve dovevano inoltre sostenere il pagamento di una tassa di iscrizione etasse mensili per l’intera durata del corso. I pochi insegnamenti teorici, regolamentati successivamente con il D.M. 30 settembre 1938, erano prevalentemente affidati a personale medico. I docenti riportavano i contenuti delle lezioni in testi, scritti in modo semplice e sintetico, consapevoli di rivolgersi a dei subordinati di scarso livello culturale. L’ambiente formativo era rigidamente regolamentato. Scopo generale della formazione era quello di formare una buona infermiera educata, possibilmente colta, ma soprattutto obbediente poiché considerata una pura esecutrice di ordini. L’allieva poteva essere soggetta a provvedimenti disciplinari per mancanze commesse nella scuola, nel tirocinio e nel convitto. La punizione più grave era il licenziamento e non si prevedeva nessuna possibilità di difesa per l’interessata. Le allieve trascorrevano gran parte del loro tempo di formazione in tirocinio. Erano considerate personale di assistenza e potevano essere chiamate in qualsiasi momento per sostituire personale infermieristico assente per malattia o carente in situazioni di emergenza. Spesso la loro presenza nei reparti era priva della guida e supervisione di personale infermieristico diplomato e ciò determinava l’assunzione di gravose responsabilità non sempre corrispondenti agli obietti formativi raggiunti in quel determinato momento dall’allieva. In sintesi, la formazione delle infermiere professionali (una definizione puntuale di infermiere professionale è rintracciabile nel Decreto Ministeriale 14 settembre 1994, n. 739, dove si legge che egli è “il professionista sanitario responsabile dell’assistenza generale infermieristica....le cui principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l’educazione sanitaria”) orientata allo svolgimento di mansioni piuttosto che alla gestione di problemi di assistenza, nasce e si sviluppa in un contesto che non favorisce l’acquisizione della capacità di giudizio e di discussione, dello spirito critico, della consapevolezza del proprio ruolo specifico all’interno del sistema sanitario, elementi necessari per sviluppare in modo autonomo il corpo delle discipline infermieristiche e i servizi infermieristici. L’enfasi posta su alcuni aspetti della formazione – come l’obbedienza, la posizione gerarchica dell’infermiera, lo spirito di sacrificio, il controllo e la disciplina – contribuirà a sviluppare, nella gran parte delle infermiere, uno stato emotivo e psicologico particolarmente fragile, incapace di difendersi ma spesso, ancor prima, di riconoscere attacchi e soprusi ad opera di altre categorie professionali. L’istituzione, con legge n. 1049 del 29 ottobre 1954, dei Collegi per Infermiere Professionali, l’attività di alcune associazioni infermieristiche nazionali, l’impegno a favore della formazione infermieristica di enti come la Croce Rossa Italiana e delle organizzazioni sindacali, la crescita di una leadership infermieristica, nonché lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche nell’ambito della sanità, porteranno negli anni Sessanta e Settanta a numerosi cambiamenti per gli infermieri nel settore della formazione e dell’attività professionale, determinando una crescita della categoria professionale in linea con quella degli infermieri degli altri Paesi Europei.

II periodo dal 1965 al 1992

Con il D.P.R. 24 maggio 1965, n. 775 (“Modificazioni allo Statuto dell’Università degli Studi di Roma – Istituzione della “Scuola Speciale per Dirigenti dell’Assistenza Infermieristica”) viene istituita la prima scuola universitaria in Italia per la formazione di personale infermieristico dirigente e docente di scuole e servizi infermieristici a vari livelli. Per poter essere ammessi alla scuola occorreva la maturità quinquennale, il diploma di infermiera professionale e alcuni anni di attività professionale (da 2a 5 anni, a seconda dei titoli di specializzazione). Il corso della durata di due anni accademici prevede a tutt’oggi ventidue esami universitari e la dissertazione della tesi finale. Da allora, molte sono oggi le scuole per Dirigenti dell’Assistenza Infermieristica presenti in varie università italiane, che concorrono a promuovere la figura infermieristica nel nostro Paese. Negli anni di avvio delle scuole per dirigenti e dell’immissione nel mondo del lavoro dei primi infermieri dirigenti, si verificarono numerosi cambiamenti che contribuirono, in modo decisivo, a modificare il profilo dell’infermiere in Italia. In seguito all’Accordo Europeo di Strasburgo del 25 ottobre 1967, sull’istruzione e la formazione delle infermiere – finalizzato a garantire un elevato grado di qualificazione delle infermiere e a garantire la loro libera circolazione nell’ambito dei paesi della Comunità Europea – in Italia, in ossequio a quanto stabilito, furono apportate modifiche sostanziali alla formazione infermieristica con la legge n. 124 del 25 febbraio 1971 (“Estensione al personale maschile dell’esercizio della professione infermieristica, organizzazione delle relative scuole e norme transitorie per la formazione di personale di assistenza diretta”). Tale provvedimento legislativo estese al personale maschile l’esercizio della professione di infermiere professionale. Le Scuole Convitto vennero denominate “Scuole per Infermieri professionali”, e fu abolito l’obbligo dell’internato. A partire dall’anno scolastico 1973/74 per l’ammissione alla scuola per Infermieri Professionali furono richiesti dieci anni di scolarità ossia l’idoneità al terzo anno di una Scuola Media Superiore. Nel 1972 con D.P.R. n. 4 e n. 10 (“Trasferimento della formazione professionale infermieristica alle Regioni”) la gestione delle scuole per infermieri passò alle Regioni, lasciando allo Stato competenze relative ai requisiti di ammissione, agli esami finali e agli ordinamenti didattici. Con la legge 15 novembre 1973 n. 795 (“Ratifica ed esecuzione dell’Accordo Europeo sull’istruzione e formazione delle infermiere”) furono definite le funzioni dell’infermiere, il livello di istruzione richiesto per essere ammessi alle scuole (dieci anni di scolarità), la durata complessiva del corso (di circa 4.600 ore di insegnamento e di tirocinio) da svolgersi nel triennio. Vennero stabiliti alcuni
criteri per l’organizzazione del tirocinio clinico, tra i quali l’individuazione di infermiere diplomate da assegnare ai reparti/servizi destinati al tirocinio clinico. La direzione della scuola per infermiere doveva essere affidata a un medico o a un’infermiera mentre l’insegnamento era affidato ad insegnanti qualificati (medici, infermieri e specialisti nelle varie discipline). Successivamente, con D.P.R. del 13 ottobre 1975 n. 867, fu attuata la modifica dei programmi di insegnamento: la durata degli studi venne portata a tre anni con 4.610 ore di formazione teorico/pratica. Si completò così l’adeguamento a quanto stabilito nell’Accordo europeo di Strasburgo in modo tale da garantire la libera circolazione degli infermieri nei paesi della comunità europea. Inoltre si favorì, con il progressivo contatto a livello europeo ed internazionale dei gruppi infermieristici, lo scambio di esperienze e la diffusione di modelli di assistenza e risultati di ricerche su questioni di interesse infermieristico. Negli anni Sessanta e Settanta, con il repentino sviluppo della scienza medica e della tecnologia, si verificò la necessità di riorganizzare la rete ospedaliera e quella dei servizi territoriali. In ospedale cominciò ad essere sempre più richiesto l’impiego di personale specializzato, mentre nel territorio più lentamente si diffuse un modello di assistenza sociosanitaria integrata, da realizzarsi in servizi di prevenzione e di riabilitazione. Le scuole per infermieri, in ordine alle disposizioni europee relative alla formazione complementare delle infermiere (Comitato di Sanità Pubblica del Consiglio d’Europa del 1983) attivarono corsi di specializzazione post-base della durata di un anno, al termine del quale veniva rilasciato un attestato di partecipazione. La riorganizzazione del sistema sanitario nazionale, culminata nella legge quadro n. 833 del 1978 (“Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale”) e successivi decreti attuativi, determinò l’esigenza di riorganizzare lo stato giuridico del personale delle Unità Sanitarie Locali, dividendolo in quattro ruoli: sanitario, professionale, tecnico ed amministrativo. In base a tale suddivisione, per gli infermieri inquadrati nel ruolo sanitario fu possibile riordinare la normativa concorsuale per le posizioni di infermiere professionale e infermiere professionale specializzato, di infermiere abilitato a funzioni direttive (caposala) e di infermiere dirigente. In breve, l’ingresso degli uomini nella professione indusse cambiamenti profondi nelle motivazioni ed una maggiore partecipazione della categoria alle rivendicazioni sindacali ed ai cambiamenti sociali. La componente maschile allargò prospettive occupazionali soprattutto in settori tecnici ed altamente specializzati dell’assistenza e favorì il progressivo miglioramento delle condizioni contrattuali e lavorative. L’abolizione dell’internato determinò una drastica riduzione dei fattori di condizionamento che incidevano sulla formazione e favorì una maggiore crescita professionale a livello individuale. L’adeguamento alla normativa europea diffuse la necessità di confrontarsi con gli infermieri degli altri paesi circa i modelli formativi ed organizzativi. Si sviluppò l’associazionismo per l’innalzamento culturale del personale infermieristico e per la tutela del suo esercizio professionale. Purtroppo le numerose organizzazioni professionali e sindacali presero posizioni diverse rispetto alle azioni di sviluppo da perseguire per il raggiungimento degli obiettivi. Le organizzazioni professionali riproposero il vecchio modello di una professione elitaria, refrattaria alle problematiche sociali e lavorative, mentre le organizzazioni sindacali privilegiarono la contrattazione economica perseguendo l’appiattimento della categoria, senza tenere conto degli aspetti culturali, giuridici e di status che determinarono comunque una differenziazione di funzioni all’interno della professione. La contrapposizione di queste due componenti di rappresentatività della professione infermieristica, in costante conflitto sulle problematiche professionali, non favorì l’evoluzione della formazione dei quadri dirigenti – aspetto fondamentale per il perseguimento dell’autonomia della professione e continuò ad ostacolare un vero e proprio salto di qualità per l’intera categoria professionale,rendendo ancora debole e instabile l’immagine professionale.

Il periodo dal 1992 ad oggi

Il dibattito all’interno della categoria professionale, il clima sociale e politico degli anni ’80 nonché gli effetti della nuova organizzazione sanitaria, contribuiranno negli anni Novanta a promuovere numerosi cambiamenti a livello legislativo per la professione infermieristica. Con il D.M. del 31 gennaio 1992 (“Istituzione del diploma universitario inscienze infermieristiche”) e successive modificazioni e con il D.M. 24 luglio 1996 (“Approvazione della tabella XVIII ter.”), recante gli ordinamenti didattici, la formazione infermieristica di base si realizza secondo ordinamenti didattici universitari da completare con corsi di perfezionamento (DPR 162/’82) e con il preesistente corso per dirigenti dell’assistenza infermieristica. Con il D.M. n. 739 del 1994 verrà definito il nuovo profilo dell’infermiere,ottenendo successivamente con legge del 26 febbraio 1999, n. 42 l’abolizione del mansionario e il cambiamento nelle denominazione da “Professione sanitaria ausiliaria“ a “Professione sanitaria”. Gli infermieri assaporano per la prima volta la possibilità di definirsi professionisti a tutto tondo senza dover fare conti con funzioni ausiliarie delegate dal medico. Per l’infermiere, così come per qualsiasi professionista, sarà la propria competenza professionale, il profilo ed il Codice Deontologico a definire lo specifico del suo agire professionale e le conseguenti responsabilità operative da assumersi nei contesti operativi. Il recente decreto ministeriale del 2 aprile 2001 (“Determinazione delle classi delle lauree universitarie e delle lauree specialistiche delle professioni sanitarie”) sostiene appieno l’autonomia professionale con la trasformazione ed il completamento del percorso formativo. Oggi è possibile ottenere una laurea da infermiere con tre anni di formazione universitaria, proseguire con Master di I livello, specializzarsi con laurea di II livello e completare gli studi infermieristici con Master di II livello e Dottorati di ricerca. L’attenzione alla diffusione del fenomeno mobbing nel mondo sanitario è abbastanza recente ed è stata di molto preceduta dall’interesse per sindromi in un certo senso analoghe quali il burn out e lo stress lavorativo. La letteratura è ricca di studi su tali concetti che, anche se qualitativamente differenti dal mobbing, sono accomunati tra di essi dalla presenza di una situazione di difficoltà che induce ad una reazione adattativa nel soggetto coinvolto ed infine conduce alla sua trasformazione in una sindrome specifica. Burn out, stress e mobbing possono rappresentare percorsi ipotetici cui molti operatori sanitari vanno incontro nella loro esperienza lavorativa e che presentano conseguenze sul soggetto molto simili. Benché molto simili da un punto di vista sintomatologico, tali fenomeni hanno la loro origine in cause diverse individuabili, a seconda dei casi, nel coinvolgimento emotivo e nella fatica fisica, nelle condizioni fisiche dell’ambiente lavorativo, nella gestione del lavoro e nella burocratizzazione, nel ruolo e nelle relazioni lavorative. La natura delle suddette variabili deve essere necessariamente accertata per ben identificare il problema e le relative strategie di prevenzione e gestione terapeutica.
Il burn out è una sindrome di esaurimento emozionale che può presentarsi in chi per professione si occupa di persone che sperimentano situazioni problematiche e/o di sofferenza. A rischio di burn out sono quindi tutte le professioni che implicano il costante contatto con la sofferenza, in cui il coinvolgimento emotivo può essere tanto forte da rivelarsi a un certo punto insostenibile. Gli infermieri, per la peculiarità della loro attività professionale svolta a stretto e continuo contatto con i pazienti, sono tra le categorie maggiormente interessate dal burn out. I dati sulla diffusione del mobbing, provenienti in gran parte da studi riferibili al mondo lavorativo del Nord Europa, non sono confortanti se si pensa che, per l’International Labour Office (ILO), la violenza fisica ed emotiva sul posto di lavoro rappresenta la maggiore minaccia alla salute collettiva in questo nuovo millennio. Per quanto riguarda la realtà occupazionale dell’Italia si calcola che oltre un milione di lavoratori siano interessati dal fenomeno. Mentre sono pochi i dati riferibili alla diffusione del mobbing nel mondo sanitario. Uno studio del 1999 (Quin L, Workplace bullying in NHS community trust: staff questionnaire survey, BMJ 1999, 318: 228-232) condotto in alcuni servizi sanitari inglesi mette in evidenza che il 38% del personale ha subito abusi nel posto di lavoro e il 42% è stato testimone di attacchi verso i propri colleghi. Nel personale mobbizzato vengono descritti alti livelli di insoddisfazione lavorativa, di stress, depressione e ansia. L’Australian Nursing Federation, in un recente documento12, afferma che casi di bullying e harassement (termini rispettivamente utilizzati in Inghilterra e negli Stati Uniti per identificare aspetti particolari del Mobbing, vedi maltrattamenti e molestie compiuti da un capo verso un suo sottoposto) sono in aumento nei diversi ambiti lavorativi, nonostante siano fenomeni ancora poco descritti e studiati. Tra gli ambienti lavorativi più favorevoli al verificarsi di situazioni mobbizzanti gli ospedali e le scuole (Leymann e Gustafsson, 1996). Rintraccia in questi ambiti, tra i fattori favorenti, condizioni organizzative estremamente precarie e sistemi gerarchici complessi e a volte poco ben identificabili. Le condizioni di lavoro degli infermieri sono paradigmatici di queste situazioni: in ospedale sono sottoposti a due linee gerarchiche distinte: da una parte quella medica, responsabile delle decisioni diagnostico-terapeutiche, dall’altra quella infermieristica (caposala, capo dei servizi, ecc.) più direttamente responsabile della qualità assistenziale. Il mobbing può essere dunque essere esercitato da più categorie di superiori per motivi diversi che vanno dalla volontà di controllo e sfruttamento alla paura di perdere potere nella struttura gerarchica. Inoltre, non sempre le decisioni prese dalle gerarchie mediche ed infermieristiche sono tra di loro congruenti e i rapporti favorevoli. Ciò causa inevitabili incertezze, disorientamenti e conflitti cui spesso si associano situazioni di forte appesantimento dei compiti derivate dalla mancanza di personale sufficiente e da criteri organizzativi poco ottimali. In questo clima può capitare che persone con particolari caratteristiche di creatività o competenza soffrano maggiormente per le difficoltà crescenti che incontrano e che possano subire un emarginazione progressiva per la diversità dei punti di vista e dei comportamenti adottati. Per gli infermieri, ai dati sul mobbing, si affiancano anche quelli relativi alla violenza più generale subita dal contatto con il pubblico. Uno studio effettuato nel 1997 dal South Australian Working Women’s Centre (Bullies down under http://www.caitrin.mtx.net/nursing.htm - ottobre 2001) rivela che, tra I lavoratori australiani, infermieri e personale insegnante sono tra i lavoratori maggiormente esposti a violenze fisiche e verbali. Anche il rapporto ILO del 1998 sulle violenze lavorative considera alcune categorie più esposte di altre e tra queste vengono appunto indicate le categorie dei lavoratori sanitari e sociali, gli insegnanti, i taxisti e coloro che svolgono lavori in contesti isolati. Particolarmente esposti risultano essere gli infermieri che erogano assistenza a domicilio del paziente.
Esistono differenze di distribuzione dei fenomeni di violenza lavorativa rispetto al sesso. Le donne sembrano essere le più colpite soprattutto per il tipo di lavoro che svolgono: la professione infermieristica, così come quella degli insegnanti sono professioni svolte prevalentemente da donne.
La diffusione delle violenze fisiche e verbali tra il personale infermieristico è rivelata anche da una recente indagine del Nursing Times15 che fornisce dati allarmanti sul fenomeno: quasi la metà delle infermiere inglesi hanno subito aggressioni fisiche durante la loro vita lavorativa e almeno 8 infermiere su 10 sono oggetto di violenze verbali. Sono dati che destano preoccupazioni particolari tra gli infermieri inglesi già colpiti da una notevole carenza di personale e si teme che gli abusi in ambito lavorativo possano costituire un ulteriore causa di abbandono della professione.
In un articolo di Spring16 vengono discusse le ragioni che espongono il personale infermieristico a mobbing e a violenze fisiche e verbali in ambiente lavorativo.
La diffusione non sarebbe casuale: l’autrice indica almeno tre caratteristiche della professione infermieristica che favorirebbero al suo interno l’aumento delle vittime di atteggiamenti persecutori e violenti.
Prima di tutto un’attenzione molto spiccata per i bisogni umani dei pazienti e dei loro familiari che espone gli infermieri ad un rapporto non sempre ricambiato da comportamentali cortesi, sensibili e positivi; il secondo elemento è individuabile nell’inevitabile esposizione alle relazioni lavorative con numerose
categorie professionali che possono essere fonte di ingiustizie e calunnie e con cui non sempre è possibile far valere le proprie ragioni; il terzo elemento è rintracciabile nel fatto che la professione infermieristica è una professione prevalentemente femminile, alla continua ricerca di una propria forza culturale e contrattuale non ancora del tutta raggiunta.

Morfologio giuridica del mobbing infermieristico

Il mobbing è saltato alla ribalta negli ultimi anni, e non si parla d’altro nei numerosi convegni che affollano le aule universitarie, come se fosse stata scoperta una nuova “malattia” sociale tanto pericolosa da necessitare di una potente ed urgente cura.
Non è così! Il mobbing non è nient’altro che una vecchia e triste storia che si ripete quotidianamente da quando la nostra società si è industrializzata e cioè da quando l’organizzazione del lavoro ha creato e sperimentato il sistema gerarchico per il funzionamento dei servizi e dei reparti. In Italia è la scoperta dell’acqua calda considerato che, nonostante appena dieci anni fa, nessuno conosceva questa parola e da allora sono state emanate e sono vigenti tuttora numerose leggi che, seppur non lessicamente, prevengono, contrastano e puniscono ogni forma di mobbing; basti pensare allo statuto dei lavoratori (L. 20.05.1970 n. 300).
Il Mobbing risalta in tutta la sua negativa pienezza sul fronte infermieristico perché la travagliata storia italiana dell’infermiere ha certamente catalizzato questo problema. Difatti l’infermiere nasce non come professione, ma come arte sanitaria ausiliaria e cioè come semplice mestiere costituito dall’espletamento di meri atti esecutivi pianificati, organizzati, ordinati e verificati dal medico e cioè da persone esterne al soggetto esecutore. La mancanza di conoscenza scientifica e tecnica, da parte dell’infermiere, ha giocato un ruolo negativo determinante nel Mobbing in quanto si trovava in una posizione di inferiorità sia sul piano scientifico che tecnico nei confronti del medico, unico cultore della scienza sanitaria in genere. La condizione ambientale e lavorativa permetteva al medico di non trovare limiti nel rapporto professionale con il sottoposto e pertanto la vessazione, la persecuzione psicologica e il maltrattamento lavorativo, erano all’ordine del giorno.
Con la crescita professionale dell’infermiere il ruolo medico/infermiere cambia, si evolve e anche il rapporto interpersonale si modifica e le alte professionalità cominciano a riconoscere l’importanza, la preparazione tecnica e culturale dell’infermiere che, gradualmente, conquista una posizione indispensabile e rispettabile nella cura del malato e nelle rispettive posizioni professionali.
Ma esistono ancora, purtroppo, aspetti negativi della professione infermieristica, dei retaggi che favoriscono il mobbing sul posto di lavoro. La pratica di specifiche mansioni che erano perlopiù legate all’infermiere generico ex DPR 24.3.74 N. 225, felicemente abrogata, almeno sulla carta, ed ora addebitate come un fardello, all’infermiere professionale, attirano sull’infermiere stesso forme diverse di Mobbing.
Il riassetto del letto, l’igiene del malato, la preparazione e la distribuzione della colazione e dei pasti nonché l’aiuto del paziente nell’assunzione del pasto e il cambio della sua biancheria personale e la pulizia dei presidi usati per l’assistenza al malato e per l’espletamento dei suoi bisogni fisiologici, rimangono specifici e inalienabili mansioni di cui si fa carico solo l’infermiere 24 ore su 24. Nonostante il D.P.C.M. 24.9.81 per la declaratoria delle qualifiche funzionali del comparto universitario per la quarta qualifica funzionale e il D.P.R. 28.11.90 n. 384 per la declaratoria delle mansioni OTA per il personale del SSN, individuino altro personale, diverso dall’infermiere, per lo svolgimento di queste mansioni di tipo assistenziale igienico-domestico-alberghiero, questo retaggio non sembra morire e non si riesce ad applicare, negli ospedali, la normativa vigente. Si tratta di un vero e proprio MOBBING istituzionalizzato; talmente tanto tollerato e praticato che una qualsiasi azione rivendicativa sfocia, sempre, in una contestazione disciplinare perché l’infermiere che pretende il rispetto della propria funzione, chiedendo quindi all’amministrazione ospedaliera di individuare altro personale, peraltro esistente, per l’espletamento di queste mansioni ausiliarie, deve essere punito. Questa politica, terroristica sul piano psicologico e fattuale, deve invece essere combattuta.
Non pochi avvocati e magistrati hanno contribuito a riconoscere una maggior responsabilità funzionale all’infermiere, emettendo sentenze che hanno tagliato il cordone ombelicale con queste funzioni meramente esecutive come per esempio la sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 1078 del 09.02.1985 – R.G. 9518/80 che ha declarato la non attinenza con la professione infermieristica di alcune mansioni attribuite così al personale ausiliario (rispondere al campanello del malato, pulire padelle e pappagalli, riassettare il letto).
Nonostante tutto questo, sono piovute numerose contestazioni da parte degli stessi infermieri che hanno rivendicato, autolesionisticamente, queste mansioni e contestualmente ma contraddittoriamente una maggior autonomia e importanza professionale anche sul piano remunerativo. Siamo dinanzi ad una forma di mobbing orizzontale che trova la propria genesi nell’ignoranza e insieme a quella verticale, operata principalmente dal medico che insiste sulla propria superiorità gerarchica e professionale, costituisce una grave pressione psicologica che determina malessere, anche talvolta fisico, e sofferenza lavorativa che si ripercuote negativamente sulla categoria infermieristica determinando i mali sociali e sanitari che purtroppo conosciamo.
Professione infermieristica, quindi, mal vissuta, mobbizzata fin dalle origini, mobbizzata fin dai primi studi, fin da quando l’allievo o studente universitario, entra nel reparto ospedaliero. Da qual momento impara subito “a non fare l’infermiere” perché la sua principale preoccupazione sarà quella dell’ausiliario; imparerà, per esempio, a sospendere la preparazione della terapia (delicata peraltro) per rispondere al campanello o per cambiare un lenzuolo; il medico invece non sospenderà mai la visita, per esempio, per rispondere al telefono poiché vive la propria professione con piena autonomia e sicurezza, conoscendo e difendendo i propri diritti. L’infermiere dovrà imparare a convivere con il mobbing, un mobbing strutturato, difficile da combattere, accettato con rassegnazione, mobbing che segnerà indelebilmente la sua vita professionale.
Ma sarà sempre così? La federazione IPASVI sta lavorando da anni per eliminare le sofferenze professionali dell’infermiere e conseguentemente anche il mobbing e il bossing. Ma non dobbiamo aspettarci che le cose vadano a posto da sole. Come ho dimostrato, né leggi, né sentenze risolvono i nostri problemi se non le usiamo attivamente per il nostro beneficio. Le sentenze e le leggi sono come carta straccia, parole al vento; acquistano forza e significato solo se le usiamo. E’ indispensabile costituire nell’ambito aziendale un servizio antimobbing che tuteli i diritti del lavoratore sul posto di lavoro e che monitorizzi e prevenga situazioni a rischio mobbing utilizzando le risorse strumentali e umane che certamente non mancano e non dimenticando di sfruttare la notevole esperienza dell’infermiere.
Che le Amministrazioni ospedaliere e il Legislatore, sensibilizzato da queste, sia a conoscenza del Mobbing infermieristico, è un dato di fatto. La produzione normativa sanitaria nell’ambito infermieristico si è recentemente protesa nel sopperire al vuoto assistenziale e funzionale prodottosi con l’abrogazione della figura infermieristica del generico e non trovando, almeno sul piano giuridico, alcuna soluzione con il D.P.R. 225/74, a distanza di 20 anni circa si è orientata nel formare personale in posizione subalterna all’infermiere professionale con lo scopo di sostituire la funzione igienico-domestico-albergiera a cui il generico era chiamato a soddisfare. Dapprima con il D.P.C.M. 24.9.1981, recante le norme per la declaratoria della qualifica funzionale dell’agente sociosanitario del Comparto universitario e successivamente con la varia ed estesa normativa sull’OTA e ora sull’O.S.S. si è cercato di circoscrivere le mansioni meramente esecutive o di facile elaborazione ad una speciale classe di operatori liberando così l’infermiere professionale di un peso che non ha certo contribuito ad elevarne la professionalità. In questo modo si è facilitata la crescita, lo sviluppo culturale e tecnico dell’infermiere fino alla laurea e alla dirigenza ponendo, senza alcun dubbio, sul piano illegale tutte quelle mansioni che attengono invece al personale ausiliario.
Ma la soluzione a questa grave problematica è lungi dal ricevere pronta soluzione. Ancora oggi l’infermiere è utilizzato negli ospedali per assolvere compiti inferiori alla propria capacità professionale e, in caso di rifiuto, l’Amministrazione ospedaliera si attiva prontamente per perseguire in via disciplinare il professionista coraggioso.
Il Mobbing nasce così come politica di organizzazione del lavoro e pertanto si struttura nella prassi amministrativa, organizzativa e funzionale di un sistema ospedaliero. La gravità di questo problema non può non ripercuotersi negativamente anche sulla qualità di assistenza erogata al paziente per cui la soluzione al Mobbing infermieristico deve essere cercata nell’organizzazione amministrativa stessa. Infatti solo collocando personale dirigenziale infermieristico agli apici dell’Amministrazione sanitaria si può evitare e controllare ogni abuso professionale che potrebbe portare al Mobbing.
E’ indispensabile che l’infermiere conquisti definitivamente la propria indipendenza dal medico e dalle altre professioni che devono lavorare, insieme all’infermiere e quindi all’unisono, per il bene del malato. Eliminando il mobbing infermieristico elimineremo la maggior parte dei nostri problemi sul posto di lavoro.

Legislazione vigente in Italia
  • Costituzione: la salute è un diritto dell’individuo e della collettività (art. 32); l’iniziativa economica privata è libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41).
  • Codice Civile (art. 2087): sulla tutela delle condizioni di lavoro. Richiama l’imprenditore "...ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". Come a dire che il legislatore, già all’inizio degli anni 40, riconosceva la complessità dell’uomo, fatto di struttura organica (integrità fisica), ma anche di emozione, pensiero, sentimento (personalità morale) che l’imprenditore è tenuto ugualmente a tutelare.
  • Codice Penale: prevede sanzioni specifiche in caso di omissione dolosa (art. 437) e colposa (art. 451) di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Inoltre denuncia per "lesioni personali", punisce con la reclusione da tre mesi a tre anni "chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente" (art. 582) e punisce con l’arresto fino a sei mesi di reclusione "chiunque reca molestie o disturbo a qualcuno" (art. 660), violenza sessuale (609 bis) Siccome il mobbing può causare malattie professionali e quindi costituire reato, può essere punito dall’art. 590 secondo il delitto di lesione personale colposa.
  • Statuto dei Lavoratori, Legge 300/1970:
    • art.9: tutela della salute e dell’integrità fisica;
    • art.13: al dipendente non possono essere date mansioni di livello professionale inferiore a quello d’inquadramento;
    • art.15: atti discriminatori per motivi politici o religiosi;
    • art.18: reintegrazione nel posto di lavoro in caso di ingiusto licenziamento.
  • D. Lgs 626/94: riguardante il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. Definisce che il datore di lavoro (art. 4 comma 5 lett. c), nell’affidare i compiti ai lavoratori, deve tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza.
  • Regione Lazio, legge regionale 14/03/2001:
    • art.1. Finalità. La regione, in attuazione dei principi costituzionali enunciati dagli artt. 2, 3, 4, 32, 35, e 37 della Costituzione, nel rispetto della normativa statale vigente e nelle more dell’emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia, interviene con la presente legge al fine di prevenire e contrastere l’insorgenza e la diffusione del fenomeno del "mobbing" nei luoghi di lavoro. La regione individua nella crescita e nello sviluppo i una cultura del rispetto dei diritti dei lavoratori da parte di tutte le componenti del mondo del lavoro gli elementi fondamentali per il raggiungimanto delle finalità indicate al comma 1 e per un’ottimale utilizzazione delle risorse umane nei luoghi di lavoro.

In sintesi, dunque, l’avanzamento dell’immagine professionale delineata nei provvedimenti legislativi non è ancora evidente nei luoghi di lavoro. L’infermiere ha ancora molte difficoltà a trovare spazi di autonomia e a utilizzare risorse umane e materiali per promuovere una maggiore qualità delle cure infermieristiche. Spesso egli è ancora coinvolto in situazioni in cui è chiamato a dipendere da livelli decisionali di altre figure: l’infermiere dal medico, la caposala dal primario, il direttore dei servizi infermieristici dal direttore sanitario ed amministrativo. L’organizzazione dei servizi sociosanitari non è ancora pronta a recepire i nuovi profili professionali ed a definire nuove posizioni funzionali in cui si renda possibile l’espressione di professionalità infermieristiche specializzate. Molte sono le resistenze legate a rigide mentalità, a problemi economici e a problemi organizzativi, che ostacolano il cambiamento a livello operativo, contribuendo a rendere poco attraente la professione infermieristica tra i giovani. Gli stessi infermieri, divisi al loro interno per le tante storie diverse vissute a livello formativo e professionale, spesso contribuiscono ad alimentare conflitti, stress e demotivazione, con il risultato di frequenti cambiamenti di sede lavorativa ed un precoce abbandono della professione. Ci vorrà ancora tempo e sostanziali cambiamenti a livello di politica sociosanitaria per poter dare a tutte le professioni della salute, compresa quella infermieristica, opportuni spazi di visibilità e decisionalità nei contesti operativi, in un’ottica di proficua collaborazione ed integrazione.

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